lunedì 2 gennaio 2017

Uomini e topi di John Steinbeck

'Ho veduto centinaia di tipi arrivare per la strada e per i ranch es, coi fardelli sulla schiena e la stessa idea piantata in testa. Centinaia. Arrivano, si licenziano e se ne vanno, e tutti fino all'ultimo hanno il pezzetto di terra nella testaccia. E mai uno di loro che ci arrivi. È come il paradiso. ...Nessuno trova il paradiso è nessuno trova il pezzetto di terra. È solamente nella testa.'

Uomini e topi è uno di quei romanzi che quasi tutti conoscono, almeno per sentito dire o per aver visto una delle versioni cinematografiche. Dopo Furore e insieme a La valle dell'Eden è tra i romanzi più famosi di John Steinbeck. Gli diede fama e benessere economico, quando uscì nel 1938, frutto del materiale raccolto per una serie di articoli sui migranti che arrivavano in California alla ricerca di lavoro durante la Grande Depressione.
George e Lennie sono due di questi uomini senza casa, che si spostano dove c'è lavoro: arrivano così al ranch del signor Curley, per raccogliere orzo. Viaggiano in coppia, fatto singolare; ma George è cresciuto con Lennie e non se la sente di abbandonare a se stesso quel gigante buono e fortissimo, capace di uccidere un animale solo perché lo vuole carezzare. I primi incontri al ranch di Curley non lasciano tranquillo George: il figlio del padrone è irascibile e instabile, in balia della propria debolezza nei confronti della giovane moglie, insoddisfatta e in cerca di compagnia tra i lavoranti. Perno del luogo il capo-cavallante Slim, saggio e di poche parole, capace di tenere animali e uomini sotto il proprio pacato controllo. Nel microcosmo anche il vecchio Cady, ormai inutile quanto il suo vecchio cane ed il nero Crooks, costretto a vivere in solitudine per la segregazione razziale.
George non è tranquillo, la situazione non gli pace, ma decide di rimanere perché basterà un mese di lavoro per mettere da parte un gruzzolo ed avvicinarsi al sogno, alla metà del loro cammino: una casa, un pezzo di terra, una stufa per le giornate di pioggia e la libertà di vivere del proprio lavoro decidendo se andare al circo o rimanere in casa, a giocare alle carte.
È chiarissimo, fin dalle prime pagine, che qualcosa andrà storto e l'istinto è quello di avvertirli, di farli allontanare, perché è evidente che la trappola è pronta a scattare per spezzare i sogni e ingabbiare quegli uomini in un vuoto nel quale dovranno sopravvivere.
Poche parole, per raccontare questa storia, ma calibrate con un equilibrio che è la magia delle narrazioni eccezionali: è ritmo, dettaglio, silenzi, omissioni e descrizioni piene di affetto e di struggimento per il destino di tutti, ma soprattutto di alcuni. Non è un ritratto realistico, se ha senso parlarne: troppo saggio Slim, troppo buono George, troppo pazzo Lennie. Siamo più vicini al linguaggio evangelico, forse: una parabola che parla di tutti noi, quando la vita si accanisce e le carte che ti serve non sono buone. Ma soprattutto un canto per tutti quelli che non hanno mai avuto realmente la possibilità di giocarsela, la partita. La traduzione di Pavese aggiunge una pagina di tristezza e di malinconia: un nodo alla gola per quella casa, quella stufa, quel luogo sereno e accogliente al quale vorremmo fossero tutti arrivati.

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