venerdì 11 agosto 2017

Le notti blu di Chiara Marchelli

Una perdita, anzi la perdita più grave, un figlio unico giovane e amatissimo: quella perdita alla quale si può solo sopravvivere, senza rimedio, senza un nome che identifichi quello che si diventa, come se anche le parole arretrassero di fronte al non-senso. 
Larissa e Michele hanno trovato un loro disperato equilibrio, dopo l'accaduto, fatto di silenzi, camminate in una gelida New York, rituali fragilissimi che a malapena permettono di fare un passo dopo l'altro. 
Una lettera dall'Italia apre di nuovo i giochi (la teoria dei giochi di Nash è parte integrante del lavoro della scrittrice sugli equilibri) e le reazioni di Larissa e Michele prendono strade diverse. Una scrittura asciutta e capace di ritrarre momenti di quotidianità straziante, una misura nell'affrontare il dolore che tutela i protagonisti e i lettori. Una parabola aperta, dal gelo al mare.

Semifinalista al premio Strega 2017.

La ragazza sbagliata di Giampaolo Simi


Il giornalista Dario Corbo sta perdendo tutto, lavoro e famiglia, quando gli viene proposto di scrivere un libro sull'omicidio che lo aveva reso famoso: una diciottenne scomparsa da casa, nel lontano 1993, poi ritrovata in un dirupo sulle colline della Versilia. Corbo aveva seguito il caso, nessuno ne sa più di lui e non ha alcun dubbio su come siano andate le cose. La colpevole, la giovane Nora Beckford, figlia di un artista di successo, ha pagato la sua pena ed è appena uscita dal carcere. Il ritorno sui luoghi e sugli anni del delitto sarà per il giornalista un percorso alla deriva, in compagnia delle anime salve di De Andrè a fargli da colonna sonora.
Il contenitore 'giallo' è ormai un classico e permette a tanti di cimentasi con una struttura a prova di lettore: Simi lo utilizza per ricostruire un paesaggio (la Versilia e l'Italia di quegli anni cruciali) e per dirci cosa ne pensa dell'oggi; una passione indubitabile per la sua terra e la sua storia, una indignazione civile che chiede di ricordare, un linguaggio semplice che può appassionare tutti. Un buon prodotto, dedicato alle anime allo sbando.
(dieci e lode alla copertina, olio di Mary Jane Ansell)

lunedì 31 luglio 2017

Una famiglia americana di Joyce Carol Oates




 Ma quanto è radicato il sogno americano della Famiglia Felice realizzata in amore e laboriosità protestante? Quanto ancora è vivo nella cultura di un paese perchè i suoi migliori scrittori sentano il bisogno di colpirlo, metterlo alla prova, vederlo distrutto?


I Mulvaney sono una tribù composta da genitori, quattro figli e numerosi animali (cavalli, cani, gatti, uccellini) che vivono in una grande fattoria nello stato di New York in un clima di caloroso e allegro caos. I genitori, Corinne e Micael John, ancora giovani ma emancipati dalle difficili famiglie di origine, si innamorano nel momento in cui insieme salvano un’anatra in difficoltà - quello sarà per sempre il momento fondante della loro unione. Gli slanci di Corinne (testardi, a volte ridicoli) e la solidità di Michael costruiscono la fiaba e la fanno vivere fino al giorno in cui il male non entra nelle loro vite. Accade qualcosa a Marianne, l’unica figlia femmina, la luce dei loro occhi, quella che aveva loro rubato il cuore più di tutti gli altri fratelli. E tutto si sfalda. Le miserie vengono alla luce, la prova non viene superata. Se si tratta di sopravvivenza del più forte, allora bisogna mostrarsi più forti, picchiare, minacciare, gridare; oppure scomparire e non lasciarsi contaminare dalla sconfitta; non entrare in acqua per aiutare l’animale in difficoltà, girarsi dall'altra parte per non vedere. Qual è la scelta vincente, per sopravvivere? Il perdono è un opzione accettabile o un’assurda fantasia masochista alimentata dalle fiabe cristiane?
Joyce Carol Oates, classe 1938 (in questi giorni in Italia), scrittrice di una quarantina di romanzi e di opere di altro genere, ha pubblicato Una famiglia americana nel 1996: il romanzo è considerato uno dei suoi capolavori. Il tema della violenza, in particolare il tema della violenza sulle donne, è spesso al centro dei suoi lavori. Ha una scrittura che cattura, un ritmo in crescendo che prende alla gola e non molla la presa. Confesso che sono spesso diffidente nei suoi confronti e mi tengo un po’ a distanza. Ma la famiglia Mulvaney mi ha davvero conquistata: mi sono arrabbiata e mi sono commossa. Una pastorale americana in versione leggermente pop? Forse. Leggetelo, sì. Decisamente sì.

Swing time di Zadie Smith

Swing time di Zadie Smith è il romanzo di una mente acuta, un'attenta osservatrice della società contemporanea a diversi livelli. La traccia principale segue la storia di un'amicizia femminile che nasce insieme alla passione per la danza, nella zona povera e multiculturale di Londra; la protagonista e l'amica Tracy, entrambe figlie di coppie miste, non dimenticano mai di essere minoranza; il loro corpo segna il loro destino ad un continuo confronto con l'altro, il diverso, il privilegio e lo svantaggio. Un romanzo che ci mostra il potere del corpo, come strumento di gioia e di prigionia e che utilizza la storia della danza anche come una storia di incontro tra culture. Le pagine più belle, dedicate ai numerosi viaggi in Gambia della protagonista, al seguito di un'artista che si dedica alla beneficenza, sono le migliori, bellissimi reportage di un mondo lontano e delle difficoltà degli aiuti calati dall'alto. Per raccontare la complessità di un mondo stretto tra diverse contraddizioni (bianchi/neri, neri/mano neri, ricchi/poveri, talento/disciplina, corpo/mente) Zadie Smith sceglie una voce narrante della quale non viene mai svelato il nome, una giovane donna ancora senza forma e senza strada che cerca la propria casa lasciandosi andare al caso, tra voglia di riscatto e legami con la propria storia. Un lavoro di grande impegno, di notevole intelligenza, che lascia un senso di tristezza nonostante i tanti passi di danza. Forse perché la narratrice, a cui Zadie Smith si affida per raccontare il mondo, non riesce proprio a trovarci un senso, che un senso non ce l'ha.

La morte della farfalla di Pietro Citati


La vita di Francis Scott Fitzgerald e della moglie Zelda raccontati dalla inconfondibile voce di Citati, che scrive come se avvolgesse i personaggi in spirali di intuizione, girando loro intorno, di nuovo intorno, finché non coglie il punto esatto, finché non li fissa in una immagine illuminante: a fine lettura si desidera riprendere in mano tutti i romanzi dell'autore o autrice di cui Citati ha raccontato e miglior risultato non potrebbe esserci.
La famosissima coppia ebbe una vita di successi e baratri, scintillante mondanità e sofferenze profonde: la grave forma di schizofrenia di Zelda, l'alcolismo di Scott, il loro legame saldissimo nonostante i litigi, i tradimenti, le separazioni forzate - a partire dall'esplosione della malattia Zelda venne ricoverata a intervalli fino alla sua morte. Bellissimo il titolo, che rappresenta sia Fitzgerald (Hemingway ne parlò a un certo punto come di una farfalla dalla cui ala tutta la polvere iridescente è sparita), sia la moglie Zelda (definita da un medico 'una farfalla dalle ali bruciacchiate'), sia quella volontà di catturare l'effimero che fu una costante della scrittura del grande romanziere. L'effimero del momento che sfugge, della felicità che si sposta sempre un po' più in là, lasciandoci esclusi dalla luce, dal 'risplendente flusso della vita'.
'E' come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza. Si ferma e indora qualche oggetto insignificante, e noi poveri idioti cerchiamo di afferrarlo – ma quando lo afferriamo il raggio di sole si sposta sopra qualcos'altro'
Nell'ombra, nella fatica, nel dolore del nostro vivere lontani dall'eden intravisto, leggendo Citati siamo accanto a Gatsby (a Scott, a Zelda) fermi al buio, a guardare le luci della vita sulla riva opposta, a pensare che non importa, 'domani correremo più velocemente, tenderemo le nostre braccia più lontano…'

'Così continuiamo a battere l’acqua, barche contro corrente, risospinte senza posa nel passato”, l'epitaffio scelto da Scott per l'infinito.

Il Ministero della suprema felicità’ di Arundhati Roy

“Mi piacerebbe scrivere uno di quei racconti sofisticati in cui, anche se non succede niente, ci sono moltissime cose di cui parlare. Un racconto del genere non può nascere in Kashmir. Quello che succede qui non è sofisticato. C’è troppo sangue per la buona letteratura”.


Tilo, una delle protagoniste de ‘Il Ministero della suprema felicità’ scrive per frammenti, prende appunti, ritaglia articoli di giornale, è sempre alle prese con ‘reperti’ da nascondere o conservare come testimonianza della follia che continua a imperversare sul Kashmir, uno dei luoghi più belli e più tormentati del pianeta. Immagino che Arundhati Roy con queste parole abbia voluto mettere in guardia il lettore: l’urgenza di raccontare nasce in lei da una passione politica e umanitaria che rischia di distrarre la scrittrice dall’attenzione alla forma, essenza dell’arte. Il desiderio di poter scrivere un racconto ‘sofisticato’, in cui i fatti siano pochi e possano essere tenuti sotto controllo con attenzione per il ritmo e gli equilibri, deve essere abbandonato di fronte alla necessità di raccontare quello che accade oggi -è quello che è accaduto ieri- in quell’immenso e complesso paese che è l’India. I percorsi narrativi principali sono due: da una parte la storia di Anjum, transessuale che vive in un cimitero e raccoglie intorno a sé una corte di ‘paria’ di ogni tipo; dall’altra quella di Tilo, donna silenziosa intorno alla quale ruotano tre uomini, e i cui destini si incrociano diverse volte, tra Delhi e il Kashmir. Anjum e Tilo finiranno per incontrarsi in quell’oasi di libertà che è diventato il cimitero, dove nonostante la povertà e la precarietà della situazione si respira un’aria meno opprimente che in ogni altro luogo del racconto.
Arundhati Roy, vent'anni dopo il grande successo de ‘Il Dio delle piccole cose’ ha pubblicato il suo secondo romanzo; nel frattempo ha scritto vari testi di saggistica e si è dedicata a diverse battaglie che riguardano l’India, e a partire dall’India tutto il mondo. Il romanzo riprende con passione (con rabbia, con dolore) le tante sofferenze che ha conosciuto il paese in tutti questi anni: dalla strage di Bhopal alla persistente divisione in caste della cultura indiana, dalla questione femminile a quella dei ‘diversi’ di ogni genere. Con una forte preoccupazione, che emerge dal romanzo e dalle interviste, per il degenerare della democrazia indiana in una sorta di ‘fascismo induista’, e le conseguenti derive estremiste delle comunità islamiche. Un mondo dove ci si ammazza quotidianamente e dove le linee di definizione delle identità variano pericolosamente e soffocano gli individui. E tra tutte le rivolte, i massacri, le follie, la linea guida di ogni guerra, da che mondo è mondo: quella” usuale: la guerra dei ricchi contro i poveri’.

La lettura de Il Ministero mi ha spesso riportato alla mente (per contrasto e vicinanza) ZeroK di Don De Lillo. Le immagini angosciose che assalivano il protagonista americano attraverso mega
schermi sono le stesse, solo un po’ più vicine. E il senso di follia che il contrasto tra quelle immagini (catastrofi, devastazioni, massacri) e le capsule per la vita eterna hanno qualcosa a che fare con i grandi magazzini scintillanti che crescono accanto a marciapiedi affollati di malati che attendono cure senza speranza.
(Il paragone fa storcere il naso, ne sono sicura: eppure…)
P.S. La capacità umana di dividersi in gruppi identitari che lottano gli uni contro gli altri è illimitata e il sistema delle caste indiano o dei gruppi islamici che si oppongono all’occupazione induista avrebbero molto da insegnare alla nostra sinistra, se hanno bisogno di idee per ulteriori frammentazioni . (Parentesi sciocchina, per riprendere fiato).

Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy

Al confine tra Texas e Messico, un giovane uomo fugge con una valigia piena di dollari che gli è capitata tra le mani e alla quale non ha saputo resistere. Ha fatto uno sbaglio, però, cedendo alla pietà e ritornando sul luogo del ritrovamento. Ora lo hanno individuato e non avrà mai più pace. Due uomini lo inseguono (almeno due, ma sono di più): il vecchio sceriffo Bell, incapace di capire la violenza senza misura che si trova ad affrontare e il sicario Chigurh, incarnazione del Male, che segue logiche folli con le quali non ci si può misurare. Un intreccio che era già sceneggiatura prima che i fratelli Coen ci mettessero le mani per creare l'omonimo bellissimo film, un meccanismo che porta inesorabilmente ognuno al proprio destino, il linguaggio asciutto, veloce e cristallino di McCarthy. Un mondo di uomini segnati dalla violenza (Bell è un eroe della seconda guerra mondiale, Moss un reduce del Vietnam) che si trovano a fare i conti con la follia. Palma d'oro ai lanci di moneta di Chigurh, un'idea semplice che McCarthy trasforma in una potentissima immagine della vita che si perde in un attimo.

Elegia americana di Jack Vance


"Qui vi racconto la vera storia della mia vita, ed è la ragione per cui ho scritto questo libro. Voglio che la gente sappia cosa vuol dire arrivare quasi a perdersi, perché può succedere a tutti. Voglio che sappia come vivono i poveri e qual è l'impatto psicologico che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che capisca cosa ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia."

Il grande successo di 'Elegia americana' di Jack Vance è strettamente legato alla sua natura ibrida tra memoir e riflessione sociologica, che ha portato la critica statunitense ad etichettarlo come libro indispensabile per capire come gli USA sono arrivati alle elezioni di Trump. J.D. Vance dichiara apertamente qual è lo scopo del suo libro: raccontare come vivono i milioni di proletari bianchi di origine scozzese e irlandese i cui antenati erano braccianti, poi mezzadri o minatori, poi meccanici od operai. In antitesi ai WASP, gli eroi di Vance vengono chiamati hillbilly (buzzurri, bifolchi), redneck (colli Rossi) o white trash (spazzatura bianca). Con dichiarato orgoglio di appartenenza Vance racconta di una comunità alla deriva, diffidente verso ogni diversità ma con un profondo attaccamento alla famiglia e alla patria; la recessione industriale ha portato nel mondo degli hillbilly un altissimo tasso di disoccupazione, una endemica diffusione della droga e una conflittualità di coppia che determina divorzi a ripetizione, botte tra genitori alcolizzati, interventi della polizia che caricano sull'auto uno dei genitori, sotto gli occhi dei vicini e dei figli, abituati a scene di quel tipo.
Elegia americana non è un romanzo, Vance ha un'ambizione diversa, quella di capovolgere l'ottica con la quale si guarda al problema. La grave disoccupazione degli hillbilly non ha, a suo parere, un rapporto inevitabile con il pessimismo e la disperazione dei suoi amici e familiari (la madre di Vance ha avuto una lunga storia di tossicodipendenza e di instabilità familiare): io ce l'ho fatta, dice Vance, sono entrato alle Yale ed ora ho un buon lavoro, una bella casa, una moglie due cani; le difficoltà esistono, ma l'atteggiamento disperato e deresponsabilizzato di tanti 'poveri' non è giustificabile, anche se comprensibile; Vance punta il dito sugli atteggiamenti che rendono la situazione peggiore di quanto non sia già, come la pretesa di essere sostenuti dal welfare, di potersi permettere di perdere un lavoro, di acquistare più di quanto ragionevole. Sono tutti temi cruciali in questo periodo della nostra storia (la storia di un 'occidente' che vede aumentare le cifre della povertà) e Vance dice la sua, in modo semplice (semplicistico?): io ce l'ho fatta, anche grazie ad alcuni sostegni (una nonna durissima che spesso imbracciava il fucile), e voi cosa state aspettando?

All'ombra delle fanciulle in fiore di Marcel Proust

L’amore per Gilberte, figlia di Odette e di Swann, veduta per la prima volta in una delle passeggiate ‘dalla parte di Swann’, associata per sempre ai biancospini, al profumo del vento, alle fantasticherie riguardo Odette, elegantissima arrampicatrice sociale, che Swann aveva sposato proprio quando il suo amore per lei era cessato. L’amore come fraintendimento, come autoinganno, come reazione a qualcosa che sfugge, incapace di vedere davvero la persona che ne diviene l’oggetto. L’incanto per le cerimonie della società, il desiderio di entrare in contatto con un mondo diverso - gli artisti, lo scrittore Bergotte e l’attrice Berma. La delusione, ogni volta, nel confronto tra l’immaginazione e la realtà. Il bisogno di capire, capire di più. I distacchi vissuti come morte, le novità che portano angoscia. L’abitudine come ritorno al rassicurante mondo stabilizzato e non più pericoloso. Il mare, Balbec, la luce, le luci, il mare, il mare, il mare. Il pittore Elstir, tramite per vedere una nuova realtà (arte che educa alla vista): e infine le fanciulle, il polipaio multiforme, l’attrazione diffusa per quel caos primigenio di giovinezza, salute, occhi ridenti, ciocche di capelli, brezza marina. Il mutare di ogni cosa, ogni persona, di noi stessi e dei nostri pensieri e ricordi, il mutare incessante che ci impedisce di afferrare la realtà nel momento in cui la si vive, il bisogno di ricostruirla, di ripensarla, renderla eterna attraverso la sua rappresentazione.

Una storia nera di Antonella Lattanzi


Per funzionare, funziona. E' costruito molto bene, mantiene un ritmo costante (affannato, come un respiro spezzato) e svela un particolare dopo l'altro con giusto equilibrio, tenendo il lettore allacciato alla storia grazie alla tecnica più sfruttata del mondo: ma cosa è successo? chi è stato? Perché il romanzo di Antonella Lattanzi ha la struttura di una detective story, senza che compaia nessun investigatore (ma ci sono il giudice, gli interrogatori e la stampa che alimenta l'interesse morboso per la cronaca nera).
Il materiale su cui lavora Lattanzi è il rapporto malato di una coppia, la violenza del marito, i figli cresciuti in quella atmosfera di pericolo costante e legati al padre da un amore ambiguo ma fortissimo, alla madre da un amore protettivo e a volte inquieto. Il padre scompare e il cadavere viene ritrovato in una discarica, l'ultima ad averlo visto è la moglie, o forse l'amante, oppure il figlio. Il meccanismo si mette in moto e ci trascina da una vita all'altra, con il carico di dolore che si trovano a gestire.
Un ennesimo buon prodotto, che va benissimo, per carità. Ma siamo lontanissimi, sia chiaro, dalla....letteratura come arte? 
(per correttezza vorrei dirvi che i commenti che ho letto in giro sono positivi, a volte anche molto)

Del dirsi addio di Marcello Fois

“Non tutte le luci fanno chiarezza. Nel regno dell'aria questo è un principio assodato: non troppo buio che sottrae, non troppa luce che moltiplica.”

L'ultimo romanzo di Marcello Fois, scrittore amabile ed amatissimo, è un noir ambientato in una fredda e buia Bolzano, che vede impegnato il commissario bolognese Sergio Striggio nell'indagine per la assurda scomparsa di una bambino di undici anni.Una vicenda che ruota inevitabilmente intorno ad un nucleo familiare e che porta l'indagine a trasformarsi in uno specchio nel quale il commissario rivive il suo difficile rapporto con il padre. L'anima (buia, luminosa) di Sergio Striggio divora l'indagine e diventa la protagonista di un romanzo che trascura la trama, trascura le indagini e si perde nei ricordi e nelle emozioni del commissario. Il padre malato si presenta a casa del figlio per una resa dei conti (del dirsi addio) e Sergio si scontra con il compagno Leo che lo accusa di non avere il coraggio di rendere pubblico il loro amore.
Tra sferzate di pioggia, declinazioni di luce e metafore avviluppate, Sergio compie il suo percorso e conclude le indagini. Qualcosa viene ritrovato, qualcuno è perso per sempre.
C'è qualcosa di buono e di urgente, al centro di questa storia, il cui cuore pulsante mi sembra essere un grande amore tra due uomini: intorno il buio, un po' di luoghi comuni, una lingua che a tratti fatica a sciogliersi in ritmo. Sull'orlo del romanzo davvero buono (e non è poco, forse), mi ha anche fatto arrabbiare, a partire dalla dedica. “ Ci sono persone che per un paradiso presunto/fanno della terra un inferno:/ questo romanzo è dedicato a tutti gli altri”. Sono saltata sulla sedia e ho rischiato di chiudere lì, nonostante la bella copertina, il bel titolo e i 17 euro appena spesi.

L'Arminuta di Donatella di Pietrantonio


Uno dei libri più letti ultimamente e molto amato dai lettori. Una favola ben strutturata sulla sopravvivenza di una ragazzina abbandonata due volte: prima dalla vera madre, che la affida ad una parente ancora neonata, poi dalla madre adottiva che la riconsegna alla famiglia d'origine senza spiegazioni. L'Arminunta, 'la ritornata' si trova a fare i conti con le ristrettezze economiche ed affettive della famiglia 'naturale': la legge di sopravvivenza regola i rapporti tra genitori e figli, la costrizione fisica che li tiene troppo vicini non lascia spazio per intimità e affetto. Ma la lacerazione profonda, dopo la cacciata dal paradiso terrestre della più agiata famiglia adottiva, è la ricerca del senso da dare a questo abbandono: cosa ha fatto la ragazzina per averlo meritato? La madre è davvero malata così gravemente? L'Arminunta si arma di rabbia e si stringe alla sorella minore appena conosciuta, per affrontare i segreti degli adulti incapaci di prendersi cura di loro. Linguaggio piacevolmente asciutto con qualche pennellata lirica che mi ha ricorda la Ferrante (i corpi, i fiati, gli umori, il sangue); un racconto onesto, con qualche clichè sulla famiglia povera e con una struttura basata sulla suspence (ma perchè è stata restituita? e si finisce il libro aspettando di scoprirlo: il mistero si svela e mi è piaciuta la scelta). 'Intrattenimento' di buon livello, ma di più non saprei dire.

La strada di Swann di Marcel Proust



L'infinita tastiera sulla quale si muove Proust, la ricchezza e la varietà della nostra anima inesplorata.

'...il campo aperto al musicista non è una meschina tastiera di sette note, ma una tastiera incommensurabile, ignota ancora quasi per intero, dove solo qua e là, divisi da folte tenebre inesplorate, alcuni tra i milioni di tasti che la compongono, esprimenti tenerezza, passione, coraggio, serenità, dissimili gli uni dagli altri come un universo da un altro universo, sono stati scoperti da qualche grande artista, che, risvegliando in noi il corrispondente del tema trovato, ci presta il servigio di mostrarci qual ricchezza, qual varietà nasconda, a nostra insaputa, la vasta notte impenetrata e scoraggiante della nostra anima, da noi scambiata per vuoto e nulla'

Nel guscio di Ian McEwan

'Oddio, potrei anche essere confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito - se non fosse la compagnia di brutti sogni' dichiara Amleto, tormentato dai fantasmi della violenza domestica dei quali deve farsi vendicatore. Ian McEwan, sollecitato dall'immagine del guscio, dà voce ad un essere ancora letteralmente 'in utero', un essere vivente non ancora gettato nel caos del mondo. Al riparo nel ventre materno, a testa in giù, pieno di nostalgia per il 'sacco opalescente nel quale fluttuava immerso nella bolla sognante dei propri pensieri' il giovanissimo essere pensante non può più rimanere isolato: costretto a tenerel'orecchio premuto giorno e notte contro le pareti del grembo, ascolta, riflette, impara. Il piccolo Amleto, parodia del tragico principe di Danimarca, si trova alle prese con una situazione simile, seppur capovolta di segno: la madre è l'amante dello zio e progettano una vita insieme, perfino l' omicidio del legittimo padre ed ex-marito. La tragedia si tinge di farsa e il celeberrimo 'to be or not to be' si incarna in domande meno metafisiche: nascere ed essere adottato, privandosi quindi degli agi di una ricchezza e cultura borghesi? Vivere senza il padre, per sempre legato ad una madre amata e odiata? Non nascere affatto, evitando il rischio e facendo violenza a se stesso per punire i malvagi? Queste le domande che non lasciano tranquillo il nascituro.

Svegliare i leoni di Ayelet Gundar-Goshen



' Non le piaceva pensare così, ma lo pensava. Che erano meno svegli e più rancorosi. Che erano patetici perché avevano perso e pericolosi perché avevano perso, due cose che sembrano inconciliabili, ma in realtà non lo sono.'

Eitan Green, brillante neurochirurgo, si è stato appena trasferito con la famiglia nella cittadina di Beer Sheva, vicino al deserto; quando ha scoperto che il suo superiore (e maestro) accettava bustarelle lo ha ingenuamente denunciato al primario, ma la punizione ha colpito lui. La rabbia per la vicenda non lo ha ancora abbandonato, è stato costretto ad abbandonare il cuore della città per ritrovarsi in un luogo in cui la polvere si infiltra in ogni cosa. E' un uomo rigoroso, di principi saldi, eppure disprezza la povertà che lo circonda e rimpiange la metropoli, il centro, le comodità, il prestigio. Tutta quella polvere non la sopporta proprio e lavarsi le mani è per lui più di una necessità igienica; ha bisogno di sentirsi incontaminato, sterilizzato. 
Una notte, dopo venti ore di lavoro, invece di tornare a casa decide di concedersi una cavalcata in fuoristrada su una pista che gli è stata segnalata ed è qui che investe un uomo, un eritreo, sicuramente clandestino. L'uomo ha il cranio fracassato ed Eitan non ha dubbi: morirà entro breve e nessun intervento lo potrebbe salvare. Sono soli, lui e il moribondo, nel deserto lunare; l'eritreo non ha scampo ed Eitan decide velocemente di salvare e stesso e la propria famiglia dalle indagini, dalle accuse, dalle possibili ripercussioni sulla propria carriera. Torna a casa, si infila a letto e dorme a lungo. La mattina dopo alla sua porta trova una donna nera, con il suo portafogli in mano: lo ha visto, sa cosa è successo e in cambio del silenzio pretende da Eitan aiuto per curare alcuni clandestini in un garage. Eitan accetta e la sua vita si trasforma in un incubo di bugie e di orrore, di rabbia e disperazione. La donna richiede continuamente la sua presenza, i pazienti sono sempre di più, bambini uomini donne, feriti ammalati trascurati; li cura e li detesta e odia la donna che lo costringe a quello sforzo. Non è la pietà che si risveglia in Eitan, ma la presa di coscienza che quegli uomini e quelle donne esistono: questa volta non può rimanere pulito, non può lavarsene le mani.
Romanzo a tema che riesce ad evitare il rischio di essere troppo didascalico, anche se le parti più sentite mi sono sembrate quelle che descrivono le sfumature dei rapporti familiari, con quell'attenzione al nucleo marito-moglie-figli sempre ben raccontato nella narrativa israeliana.
Ayelet Gundar-Goshen, scrittrice israeliana, affronta il tema dello 'straniero' evitando il territorio più narrato del conflitto con gli arabi, forse per allargare lo sguardo ad una dimensione più generale: come (non) vediamo gli altri se questi potrebbero mettere in crisi il nostro consolidato benessere . La povertà e la sporcizia, i disgraziati, quelli che il fiume della storia ha trascinato in giro come detriti, spesso fanno proprio questo, senza volerlo: ci chiedono chi siamo, quali sono i nostri valori.

Le cure domestiche di Marylinne Robinson

Le cure domestiche, esordio di Marylinne Robinson venticinque anni prima di Gilead, contiene già i temi intorno ai quali si aggira la ricerca della scrittrice: l'identità, la casa e le perdite. La storia di Ruth e Lucille inizia infatti con l'abbandono da parte della madre Helen, che le lascia alla nonna, nella cittadina di Fingerbone, prima di gettarsi nel lago. Le bambine vengono cresciute dalla nonna, poi dalle cognate e infine dalla zia Sylvia, richiamata a casa proprio per occuparsi di loro. Ruth e Lucille, tra una perdita e l'altra, crescono nella vecchia casa della nonna, costruita per lei dal marito Edmund, un impiegato delle ferrovie cresciuto nel Midwest e arrivato quasi per caso a Fingerbone, alla ricerca di un paesaggio meno piatto di quello da cui fuggiva. Ma la cittadina è costruita su un lago, il terreno su cui sorgono le case un tempo apparteneva all'acqua e capita che il vecchio lago ritorni e allora il terreno diventa fango e poi acqua melmosa, le cantine si allagano, nel frutteto si forma uno stagno di 'acqua chiara come l'aria che copriva erba e foglie nere e rami caduti, tutt'intorno altre foglie nere ed erba fradicia e rami caduti, e sopra, lieve come l'immagine in un occhio, il cielo, le nubi, gli alberi, le nostre facce librate nell'aria e le nostre mani fredde'.

La più amata di Teresa Ciabatti

'Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia del Professore. La gioia, l’orgoglio, l’amore del Professor Lorenzo Ciabatti. Che lo sappiate tutti – paesani, poveri, invidiosi – guardateci passeggiare nel corso, io e lui vicini vicini, oh, papi, e voi che vi fermate a salutarlo, e lui che vi risponde con un semplice cenno del capo, come il papa, come dio, lui che risponde alle vostre celebrazioni, tenendo per mano la sua bambina. Solo lei. Solo me. La più amata.'

Un romanzo di cui si è parlato molto, elogiato da critici e scrittori. Teresa Ciabatti racconta la sua infanzia e la sua adolescenza, alla luce di quello che oggi ha saputo e che allora poteva solo vagamente intuire senza consapevolezza. La sua storia si intreccia con uno dei tanti misteri italiani, il fallito golpe Borghese del 1970 e la massoneria. Ma non è questo l’interesse principale del romanzo, non è sulla ricostruzione precisa di quella che è stata la storia di Lorenzo Ciabatti, primario chirurgo dell’ospedale di Orbetello affiliato alla massoneria, che si trovano le ragioni profonde della scrittura: tutto ruota intorno alla bambina che è cresciuta con quel padre che tanto ha amato e che l’ha profondamente tradita.
La scena iniziale si svolge in piscina, nella piscina della lussuosa villa di Orbetello dove Teresa viveva con la famiglia. L'azzurro del cielo e dell'acqua, un coccodrillo verde con cui gioca la ragazzina. Arriva un uomo, ha una pistola; il padre dice che se ne deve andare con lui, ma che tornerà presto: si tratta di un sequestro, anche se la moglie e i figli non se ne rendono conto del tutto, un sequestro anomalo, il padre ritorna davvero il giorno dopo. Ma quella piscina e quel sequestro sono il centro di un'infanzia segnata da un contesto familiare e sociale fondato sul potere. Il padre è un uomo ammirato, amato, ossequiato in mille modi nel paese di Orbetello: i pazienti portano al suo studio cibo e animali (una delle prime scene racconta il dono di una gallina da parte di un paziente), medici e infermieri sono sempre disponibili come autisti, muratori, idraulici, commessi (sono loro a comprare i regali che la bambina chiede al padre). Teresa è la sua principessa, o almeno è quello che crede di essere: la più amata. Ma la più amata chiede sempre di più, in una specie di sfida con il silenzio della madre, che dorme, acconsente, non si fa sentire abbastanza: i genitori decidono di allontanarla dal paese, il contatto con una realtà diversa non potrà farle che bene. Da quel momento inizia per Teresa l'esilio dal regno fatato del paesello dove tutti la conoscono, dove è la figlia del dottor Ciabatti e tutti la trattano con riguardo. È la prima prova di quello che sarà poi il suo destino: perdere tutto quello che credeva di possedere per diritto divino, il potere sugli altri e sul padre, il privilegio di essere la più amata dall'uomo più importante di quel microcosmo.
La voce di Teresa Ciabatti adulta si nasconde dentro alla voce della ragazzina, ma spesso è la voce della bambina a impossessarsi dell'adulta che scrive. È una voce esplosiva, tagliente, di una ironia feroce e beffarda, piena di desiderio di rivalsa e rivendicazioni. È la voce di una bambina che è stata ingannata, alla quale è stato offerto un regno fondato sulle tenebre e poi le è stato tolto proprio dal padre tanto amato e ammirato. E’ una voce di grande intelligenza, di grande sensibilità linguistica, un monologo delirante e divertente e molto carico di una sofferenza che viene talmente esibita da alimentare il sospetto che il vero dolore non ci sia stato svelato. Anche se Teresa Ciabatti ha scelto una maschera per sé stessa che gioca sulla esibizione della sincerità, anche scomoda, come l’ammissione di essere una donna di quarantaquattro anni che ancora dà la colpa ai genitori delle proprio mancanze, o patologie, o difficoltà - chiamiamole come vogliamo. E qui sta il limite, a mio parere, di un romanzo molto bello che poteva esserlo di più. La voce dei bambini, quando soffrono - come quella degli adulti nei tanti momenti di regressione - è un monologo su se stessi. Il mondo intorno, le ragioni degli altri, la voce delle sofferenze diffuse non vengono messe a fuoco: un equilibrio maggiore avrebbe reso ‘La più amata’ non solo un buon romanzo (e buono lo è senz'altro) ma un grande lavoro.

Il nido di Tim Winton


Australia, uno sfondo da cartolina: mare, natura, sole. Tom Keely è un uomo allo sbando: ha perso il suo lavoro di stimato ecologista per un gesto impulsivo che l'ha portato ad una accusa di diffamazione; ha perso la sua vita matrimoniale dopo che la moglie ha scelto di non portare a termine una gravidanza problematica e indesiderata; ha perso l'equilibrio e vive ai margini della sana e solare società australiana. Si è chiuso nel suo nido, all'ultimo piano del Mirador, un grattacielo abitato da persone che non sono riuscite ad entrare nel circolo virtuoso del benessere economico. Da lassù guarda l'orizzonte, contempla cielo e mare, in uno stato confusionale da abuso di alcool, droghe e psicofarmaci: dal suo nido non esce volentieri, il contatto con la gente lo confonde e lo irrita, il progresso pagato al prezzo della devastazione ambientale lo disgusta. Se ne sta chiuso là in cima, lontano da tutti, ad ascoltare il vento in bilico sul precipizio. Quando scopre che una sua vecchia conoscenza abita in un appartamento vicino cerca di sfuggire ad ogni rapporto: ma Gemma ha con sé il nipote Kai, un bambino segnato da una vita persa in partenza e Tom lentamente si avvicina al loro mondo. D’altra parte sono degli sconfitti, come lui. Quella che in partenza sembrava la storia di un idealista in lotta contro il potere si sviluppa invece in modo più profondo e pone al lettore domande centrali: cosa significa essere perdenti? Qual è la misura giusta nel combattere per una buona causa? Quanto ci si può avvicinare ai vinti senza rischiare di farsi trascinare nel gorgo insieme a loro? La famiglia di Tom Keely (il padre, la madre, la sorella) sono sempre riusciti a dedicarsi alle cause giuste senza perdere una briciola della loro posizione sociale; l'inutile idealismo di Tom, che gli ha rovinato la carriera, la vitalità esuberante e rabbiosa di Gemma, il dolore di Kai che lascia intravedere un futuro problematico, non sono allo stesso livello perchè portano i segni evidenti di chi non riesce a corrispondere alle aspettative della società. Bellissimi ritratti di personaggi ai quali ci si affeziona lentamente ma profondamente, in particolare un bambino che si vorrebbe abbracciare e una donna che non ha nessuna carta buona da giocare ma nessuna intenzione di darsi per vinta. La domanda che lascia il romanzo, alla fine della lettura: quanto siamo disposti a perdere per combattere le nostre battaglie?

lunedì 20 marzo 2017

Il conte di montecristo di Alexandre Dumas

Leggere Il conte di Montecristo è un grande divertimento, uno spettacolo di azioni e scene una dopo l’altra, un continuo attendere il successivo avvenimento. Romanzo su commissione, a puntate, in parte appaltato da Dumas ad altri colleghi meno famosi. Scritto malissimo, diceva Umberto Eco, eppure incantevole.
La storia è nota: Edmond Dantès, giovane marinaio di buon cuore e grande intelligenza, sta per essere promosso capitano del Pharaon e per sposare la bellissima Mercedes: ha diciotto anni e la vita gli si spalanca davanti piena di promesse. Come tutti i cuori puliti Edmond non immagina di essere circondato da invidie, rancori, cattiveria. Il contabile Danglars, che vuole avere il suo posto come capitano della nave, sfrutta la gelosia di Fernand, innamorato di Mercedes come strumento per mettere nei guai Dantès. Sono tempi difficili, Napoleone è in esilio sull’isola d’Elba e la monarchia non si sente tranquilla, ogni sospetto diventa facilmente vittima del sistema giudiziario. Edmond finisce così davanti al sostituto procuratore, il quale è pronto ad ogni cosa pur di far carriera e Dantès potrebbe diventare testimone di una scomoda verità, per cui deve scomparire. Nel giro di poche ore il giovane si ritrova al castello d’If, rinchiuso nelle segrete. In un attimo gli viene tolto tutto: la libertà, la luce, la possibilità di difendersi, il lavoro, gli affetti. La prova che deve superare è durissima, perché il buio è totale e le speranze nulle. L’apparizione dell’abate Faria compirà il miracolo di offrire a Dantès una seconda vita: nelle viscere della terra l’abate porta la luce della conoscenza, di una mente capace ancora di progettare, il calore di un affetto. Tramite lui, dopo averne letteralmente preso il posto, Dantès ritorna tra gli uomini completamente trasformato; il suo cuore si è indurito come ghiaccio e non teme nulla; la sua intelligenza si è affilata come una lama e si è estesa ad ogni campo, la sua volontà è divenuta un’ossessione: fare giustizia, diventare Provvidenza divina, riparare ai torti e punire i colpevoli.
Il conte di Montecristo, come suggerisce Michele Mari nell’introduzione, è il prototipo del morto-vivente, del revenant che sarà portato alla fama nelle vesti del vampiro di Polidori e poi di Stoker: il suo ritorno dal regno dei morti ha i caratteri di una resurrezione, del rinascere a nuova vita, evidenziata dal pallore che contrasta con i tanti caratteri ‘neri’ del personaggio. Torna alla vita, Dantès, dopo aver attraversato l’inferno, con un solo scopo: consumare la propria vendetta - le infinite ricchezze, le droghe, le conoscenze più profonde sono solamente mezzi attraverso i quali raggiungere un potere talmente grande da poter spazzare via i mille poteri per i quali gli esseri umani tramano, intrigano, lavorano senza tregua. In un gioco di maschere e identità segrete e fittizie, attraverso una costruzione paziente e sapientissima, la vendetta verrà consumata e chi ha basato la propria vita sulla ricerca del potere verrà spazzato via dalla violenza della mano del revenant.
Un grandissimo romanzo popolare, una fiaba nera di morti apparenti e di vivi senza cuore.

domenica 26 febbraio 2017

Fair play di Tove Jansson

Un ricostruzione intelligente e felice di una lunga storia di coppia: Mari e Joanna sono due artiste che vivono in due appartamenti collegati tra di loro in un edificio sul porto di Helsinki. In estate passano le vacanze in una casetta su una piccola isola solitaria. Mari è un'illustratrice, Joanna dipinge, scolpisce il legno fotografa, fa riprese. Il resoconto della loro lunga storia d'amore e di collaborazione è costruito attraverso quadri, brevi riprese di un giorno d'estate, un viaggio, un periodo difficile; Tove Jansson racconta i ggesti, le parole, i momenti quotidiani - senza affondare lo sguardo oltre ciò che potrebbe cogliere una telecamera guidata da una sensibilità raffinata. Ne esce il ritratto di una partita a due giocata con tutta la correttezza, la passione e la serietà di una partita di squadra. Si collabora, ci si sostiene, a volte ci si arrabbia: ma chi ti è di fianco è il tuo compagno, quello che farà la sua parte al momento di segnare il punto.
Le due donne, legatissime e allo stesso tempo indipendenti, come i loro due appartamenti, ci mostrano un modello di amore in cui il rispetto per l'altro è costante: fair play, appunto; un gioco corretto, una vita piena e proficua.  Tove Jansson rielabora attraverso il racconto la sua lunga relazione con la compagna di una vita, regalandoci un inno alla libertà, all'affetto, al lavoro come passione e condivisione.

Le nostre anime di notte di Kent Haruf

Il romanzo di cui tutti parlano in questi giorni, dopo il grandissimo successo dei precedenti lavori pubblicati da NN, è l'ultimo tassello della narrazione di Kent Haruf dedicata alla immaginaria cittadina di Holt, Colorado. Ultimo in modo definitivo, essendo stato scritto  quando lo scrittore già sapeva di non avere molto tempo davanti. La moglie, in Italia nei giorni scorsi per la promozione, ha raccontato di una scrittura veloce, rispetto al lungo lavoro dei romanzi precedenti, dettata dal l'urgenza di concludere in tempo. Sono cose che si sentono, nella scrittura: l'urgenza, l'avere qualcosa da dire, danno alla scrittura una coloritura determinante.
La storia è semplice, pochi i fatti, quasi azzerati i virtuosismi. Addie Moore, una vedova sulla soglia della vecchiaia, propone a Louis Waters, un vicino rimasto solo come lei, di passare insieme le notti.
'
Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me', dice Addie. 'Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare'

Inizia così una relazione che diventa affetto, lontana dai tumulti giovanili (che entrambi hanno comunque attraversato), misurandosi con un tempo che si conosce limitato e allo stesso tempo ancora capace di lasciare respiro e spazio. 'E adesso cerca di non essere precipitoso', dice a sé stesso Louis dopo la proposta di Addie. Addie e Louis sono capaci di avvicinarsi con dolcezza, lentamente, senza badare alle convenzioni e alle chiacchiere del paese. Nello spazio condiviso del letto cominciano un'avventura verso la reciproca conoscenza: attraversano la notte insieme, cercando le parole per raccontarsi.
Una bella storia, un evidente amore che lega il narratore ai suoi personaggi e a quelle piccole cose della vita quotidiana che diventano preziosissime quando non si danno più come scontate. Fare un picnic, andare i campeggio, cucinare per un nipote, occuparsi di un cane, bagnarsi in un fiume, parlare la notte: come se fosse il regno dei cieli, senza troppe fanfare. La voce di Kent Haruf suona così, tranquilla e delicata. Una spiritualità tutta terrena, delicata e soffusa: ogni cosa è illuminata, ma non ci sono bagliori accecanti: un'alba tranquilla, un tramonto sereno. Semplicemente un amore.

La figlia femmina di Anna Giurickovic Dato


Anna Giurickovic Dato, classe 1989, per il suo romanzo d'esordio, ha scelto un tema 'forte' ed estremamente complesso: gli abusi sessuali di un padre sulla figlia, una bambina piccola. Ha ambientato la storia a Rabat, colorando la scenografia di colori, suoni e profumi. Giorgio è un diplomatico che lavora all'ambasciata italiana: la moglie e la piccola Maria si sono trasferite con lui.

La situazione è subito chiarita nel primo capitolo' Questo è il mio papà'; il punto di vista è quello della bambina ed il padre compare sulla scena mentre spiega ad una coppia francese il sacrificio di Abramo nel giorno della festa per l'Eid al-Fitr, che segna la fine del Ramadan.

'È un uomo robusto, alto, bello. Maria si accorge che, quando passa, la gente lo guarda con rispetto tuo, che desidera le sue attenzioni...Maria è assorta in un pensiero. È l'unica figlia di suo padre. Se un giorno lui la legasse e la stendesse su un altare accanto a legna da ardere, lei non si stupirebbe. Pensa che lui lo farebbe fissandola con gli occhi neri e severi, attraverso le ciglia ramate. Lei gli accarezzerebbe un riccio della criniera arancione che ha sempre voglia e timore di toccare. Penserebbe che se lo fa papà è giusto'.
Ed è proprio quello che accade, sera dopo sera: lei è sdraiata, il papà le legge una storia e poi comincia a toccarla; la bambina brucia di vergogna, di confusione, di paura, di amore. Tutto insieme. Il padre non viene fermato dall'improvvisa voce di Dio e il sacrificio si consuma.

Nel secondo capitolo Maria ha tredici anni e vive con la madre a Roma: il padre non è più con loro, la madre ha da poco iniziato a frequentare un uomo, che quel giorno verrà a pranzo per conoscere la ragazzina: è un momento difficile per la madre, che teme la reazione di Maria. La bambina infatti, fin da piccola, ha iniziato a comportarsi in modo strano, alterna dolcezza ad aggressività, ha incubi ricorrenti, giornate di mutismo. La madre racconta il pranzo con il nuovo compagno e la figlia, cornice all'interno della quale vengono narrati gli anni precedenti, alternando presente e passato. Anna Giurickovic Dato  indaga il rapporto madre-figlia, all'interno della tragedia subita da entrambe: una madre che non ha saputo vedere, una figlia che ha sviluppato un rapporto drammatico con le figure degli adulti.
Un ottimo spunto di partenza, un interessante sguardo sulle dinamiche madre-figlia in relazione ad uomo amatissimo capace di distruggerle. L'ambientazione 'esotica' non mi ha convinta del tutto; da una parte colloca la famiglia in un isolamento  che riproduce la profonda distanza dal mondo che separa chi subisce violenze in famiglia dalla comunità, ma in parte collega la violenza, per pura contiguità, ad un mondo che ancor oggi molti considerano 'barbaro', soprattutto in relazione alle donne. Altre cose non funzionano, a partire dalla presentazione ufficiale del romanzo.
'Sensuale come una versione moderna di Lolita, ambiguo come un romanzo di Moravia, La figlia femmina è il duro e sorprendente esordio di Anna Giurickovic Dato.'
Ecco, sensuale. Non lo avrei mai usato per definire una storia di abusi e degli atteggiamenti di una ragazzina segnata dalla violenza di un padre. Ancor peggio usare Lolita, ancora, come se fosse davvero la 'ninfetta' che voleva vedere Humbert Humbert.

L'ospite di Sarah Waters

Da tempo volevo leggere uno dei romanzi 'gotici' di Sarah Waters, scrittrice gallese che per tre volte è stata finalista al Booker Prize. Ho trovato quello che cercavo ne "L'ospite", uscito nel 2009: un'atmosfera alla Henry James, una antica dimora stregata che richiama le famose case di Edgar Alan Poe e Wilkie Collins. Siamo nel Warwickshire, negli anni del dopoguerra: Faraday è un medico di campagna di umili origini, un uomo nella piena maturità che si dedica con impegno al proprio lavoro senza aver ancora acquisito una sicurezza economica del tutto soddisfacente. Quando viene chiamato a Hundreds Hall, la tenuta del XVIII secolo nella quale era entrato solo una volta, ancora bambino, nel periodo in cui la madre lavorava nella casa come donna di servizio; quello che nel ricordo di Faraday era un luogo di meraviglie e splendore, è stato completamente trasformato dalla guerra e dalle difficoltà economiche: la signora Ayres ed i figli Roderick e Caroline vivono in un quasi totale isolamento, la casa è in condizioni disastrose, i conti non tornano ed il dubbio sulle possibilità di mantenere la tenuta tormenta il giovane Roderick, già segnato dalla drammatica esperienza della guerra. Faraday si lega ben presto alla famiglia, sia per il legame affettivo che ha con il luogo nel quale sua madre lavorava sia per un istintivo senso di protezione verso gli affanni di quel triangolo senza aiuti. Ma quella grande casa che sembra voler divorare gli Ayres vanificando ogni loro sforzo per mantenerla in piedi sembra sempre di più animarsi, come se attraverso le sue mura in disfacimento vibrasse una presenza maligna. Faraday fa di tutto per rimanere vicino alla famiglia, cercando di aiutarli anche nel mantenere una visione razionale delle cose senza lasciarsi suggestionare da sensazioni che potrebbero avere una spiegazione razionale.

Non si può svelare altro senza togliere il gusto della suspence, elemento essenziale in questo romanzo di genere, che procede lentissimo ma affascina, spaventa e coinvolge; un bellissimo ritratto di un luogo e di un uomo e una donna legati da sentimenti potenti. Il finale lascia aperte alcune possibilità, o così dicono: a me è sembrato fornisca sufficienti elementi per una chiave di lettura convincente. Infine: un bellissimo ritratto di donna e un intelligente racconto di contrasto tra classi sociali che mi hanno dato grande soddisfazione. Lunga vita ai romanzi di genere, al gotico e alle case infestate.

sabato 11 febbraio 2017

Preghiera per Černobyl’di Svetlana Aleksievič

«Questo libro non parla di Černobyl’ in quanto tale, ma del suo mondo. Proprio di ciò che conosciamo meno. O quasi per niente. A interessarmi non era l’avvenimento in sé, vale a dire cosa era successo e per colpa di chi, bensì le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toccato con mano l’ignoto. Il mistero. Černobyl’ è un mistero che dobbiamo ancora risolvere... Questa è la ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti. Per tre anni ho viaggiato e fatto domande a persone di professioni, destini, generazioni e temperamenti diversi. Credenti e atei. Contadini e intellettuali. Černobyl’ è il principale contenuto del loro mondo. Esso ha avvelenato ogni cosa che hanno dentro, e anche attorno, e non solo l’acqua e la terra. Tutto il loro tempo. Questi uomini e queste donne sono stati i primi a vedere ciò che noi possiamo soltanto supporre... Più di una volta ho avuto l’impressione che in realtà io stessi annotando il futuro».

Svetlana Aleksievič ci porta a Černobyl, nei giorni e nei mesi immediatamente successivi al guasto della centrale nucleare situata in territorio russo, ai confini tra Bielorussia ed Ucraina. Le voci che ha raccolto nei suoi tre anni di lavoro riescono a farci vivere quei giorni in cui buona parte del nostro mondo rischiò di scomparire. Per gli uomini e le donne che lavoravano alla centrale, o vivevano nella zona, o furono mandati sul posto per arginare il disastro, quei giorni non sono mai finiti: chi di loro è sopravvissuto non è mai più uscito da quell'incubo. Sono uomini e donne e bambini di Černobyl, questa per sempre la loro identità. La portano nel DNA , marchio invisibile ma indelebile; la portano nei pensieri, nei sogni, nei rapporti con gli altri. Hanno perso compagni, figli, amici; hanno visto la loro vita azzerarsi, in poche ore: niente più casa, né un paese a cui tornare un giorno, né lavoro, né futuro: fare figli? Non è il caso. Innamorarsi? Chi potrebbe avvicinarsi? Portatori di morte, per sempre, chiusi in un limbo in cui ci si capisce solo tra adepti. Parlare con gli altri? È perché? Come potrebbero mai capire? È oramai, dopotutto, cosa importa?
Un mare di voci che ci raccontano quei giorni in cui tutto perse senso: come si può trovare un senso a ciò che non puoi percepire? Il mondo sembrava lo stesso di sempre, eppure qualcuno diceva loro di non raccogliere le patate, né la frutta, di non mangiare la carne degli animali: e cosa dovevano mangiare, se non avevano altro? E così mangiavano, qualunque cosa, tanto si era sparsa la voce che la vodka fosse perfetta per combattere le radiazioni. Arrivava qualcuno ed ordinava loro di salire su un pullman, di lasciare tutto e partire. Ma come si poteva partire lasciando la casa e l'orto e le bestie? Per andare dove? Arrivava qualcuno e ti diceva che dovevi andare alla centrale, a dare una mano, c'era da tenere sotto controllo la situazione per evitare ulteriori problemi che avrebbero potuto distruggere buona parte dell'Europa. Moltissimi andarono: non potevano perdere il lavoro, non capivano davvero il pericolo, non volevano tirarsi indietro di fronte alla richiesta dello Stato: se si doveva fare, andava fatto. Andarono con mascherine di garza e poco altro, spalarono a mani nude, volarono in elicottero sopra il reattore. Sotto di loro giocavano i bambini e avrebbero voluto avvertirli, ma come fare? Intanto qualcuno approfittava, come sempre: entrava nelle case abbandonate e si portava via tutto; buona parte di quello che riuscirono a prendere venne rivenduto, e chissà dove ha girato. Qualcun altro rientrava di nascosto a casa, attraverso il bosco, per prendere qualcosa che non poteva abbandonare o per rimanere a morire lì, piuttosto che perdersi altrove. E tutto intorno la natura, alberi, frutta, uccelli, i cani, i gatti, i cavalli, le mucche: una sensazione di vicinanza, come mai prima.

'Prima non consideravamo nemmeno questo mondo che è attorno a noi, per noi era come il cielo, come l'aria, come se qualcuno ce l'avesse dato una volta per tutte, e non dipendesse da noi. Tanto era per sempre'.

Ma il sempre, come molte altre parole, non è più per la terra: il sempre va bene per le radiazioni, che hanno tempi di scomparsa da far girare la testa. E allora, tanto vale lasciar perdere. Se la realtà non è più comprensibile, tanto vale buttare giù un po' di vodka e raccontarsi un'altra barzelletta. Ne sono nate moltissime, sull'argomento; insieme ai miti sugli animali a tre teste sembravano essere le uniche forme di racconto possibili. Oppure c'era il silenzio.
O la preghiera.

martedì 7 febbraio 2017

Una cosa che volevo dirti da un po' di Alice Munro

L'ultima raccolta di racconti di Alice Munro pubblicata in Italia nel 2016, 'Una cosa che volevo dirti da un po' ' corrisponde alla seconda raccolta dell'autrice, pubblicata nel 1974.
Oggi Alice Munro è giustamente molto conosciuta e tanto è stato detto e scritto sui suoi splendidi racconti e sulla qualità del suo stile: questa raccolta è una conferma, a posteriori, che lo sguardo era già allora quello che conosciamo e che la Munro possedeva già tutti gli strumenti per raccontarci il mondo illuminato da quella luce obliqua e a tratti diretta che abbiamo imparato ad amare.
I personaggi lo riconosciamo, pur nella loro individualità precisa e concreta: sono soprattutto donne, anziane sedute sulla veranda a guardare la nipote, ragazzine alle prese con il primo innamoramento, amanti di uomini sposati, donne appena separate, con bambini e un nuovo compagno, donne che scrivono tra la spesa ed i figli, mamme svagate o determinate; intorno a loro uomini dolci, affascinanti, freddi, inaffidabili, intelligenti. I rapporti tra di loro, sempre in primo piano, tra appartamenti con guasti alle tubature, baracche poverissime, case di campagna con lavatrice e asciugatrice, una periferia nella quale si parla della città come un mondo vicino e frequentato ma anche irraggiungibile.

Gli incipit, come sempre, ci buttano dentro ad un discorso già iniziato, ad un frammento di conversazione, ad un pensiero che prosegue. In Materiali entriamo direttamente nelle riflessioni della voce narrante, senza ancora sapere nulla del suo mondo.

“Non riesco a star dietro agli scritti di Hugo. Certe volte, in biblioteca, vedo il suo nome sulla copertina di una rivista letteraria di quelle che non apro – sono ormai dodici anni che non apro una rivista letteraria, grazie a Dio.”

Quello che abbiamo davanti non è un mondo, ma una mente: la mente di una donna che segue un suo filo invisibile e si racconta, ci racconta, una storia senza seguire un ordine cronologico, passando dall'oggi al passato senza preavviso, per poi tornare a un momento più vicino, sempre nel passato e poi all'oggi, di nuovo. Ogni passaggio è una sorpresa, ogni deviazione lascia qualcosa di non detto, un minuscolo enigma che ci lascia in sospeso.

Il racconto, in questo caso, prosegue con velocità e ci informa dei fatti: Hugo è stato il primo marito della protagonista, hanno una figlia che lui ha completamente abbandonato, troppo preso dalla carriera come scrittore, dai due successivi matrimoni e dai sei figli che ne sono nati.
Comprendiamo così meglio il disprezzo con cui X aveva proseguito la sua riflessione sull'attività dell'ex-marito, spesso invitato a tenere conferenze.

“Allora mi chiedo, ma la gente ci andrà davvero, la gente che potrebbe andare in piscina, o a bere qualcosa, o a fare una passeggiata, si trascinerà davvero fino al campus per cercare l’aula giusta e sedersi in fila ad ascoltare quei palloni gonfiati litigiosi? Uomini pieni di sé, trasandati, supponenti, è così che li vedo, viziati dalla carriera accademica, da quella letteraria, e dalle donne. La gente va a sentirli dire che il tale scrittore non bisogna più leggerlo, e il tal altro invece sì; a sentirli liquidare uno e incensare l’altro, e bisticciare e ridacchiare e provocare. Dico gente, ma intendo donne in realtà, signore mature, come me, vigili e tremebonde, che sperano di formulare domande intelligenti e di non rendersi ridicole; ragazze dai capelli morbidi, grondanti adorazione e smaniose di incrociare lo sguardo di uno degli uomini sul palco. Le ragazze, e anche le donne, si innamorano di uomini così, li immaginano depositari di un certo potere.”

Nel frattempo la narratrice ci ha parlato del suo attuale marito e del legame diversissimo che ha con questo tranquillo ingegnere rumeno rispetto al litigioso e appassionato primo matrimonio.
Il punto centrale del racconto è un fatto avvenuto quando lei e Hugo, appena sposati, vivevano in un appartamentino in affitto: sotto di loro viveva una donna, che ora la donna ritrova in un racconto di Hugo, in una raccolta appena pubblicata. La meraviglia di trovare quel loro ricordo comune trasformato in personaggio la porta a rivedere il passato alla luce di questa scoperta: ripensa all'episodio che ha determinato la rottura del suo matrimonio e riconosce a se stessa gli errori fatti.
La chiusura ritorna al presente, al secondo marito - e all'improvviso la contrapposizione tra i due si trasforma in somiglianza.

“Al tempo stesso, a tavola, guardando mio marito Gabriel, mi sono resa conto che lui e Hugo non sono poi così diversi. Tutti e due sono riusciti a concludere qualcosa. Entrambi hanno deciso come reagire a tutto ciò che incontrano in questo mondo, che atteggiamento assumere, come ignorare o utilizzare gli eventi. In un loro modo provvisorio e limitato, tutti e due hanno autorevolezza. Non sono alla mercé. O pensano di non esserlo. Non li posso biasimare, se cercano di sistemare le cose a modo loro.”

Ma poco dopo: 'Li biasimo, invece. Li invidio e li disprezzo'

Ho provato a seguire uno dei racconti per vedere meglio come funzionano e mi sembra di aver capito ancora una volta che la Munro scrive storie in cui quello che è in primo piano non sono i fatti in sé stessi, ma i fatti come li ricordiamo o dimentichiamo, come li ripensiamo rispetto al passare del tempo e alle nuove esperienze. Sono racconti su cosa ci raccontiamo, come lo raccontiamo e cosa ci nascondiamo, o dimentichiamo. Su come funziona la nostra mente, nel suo incessante lavoro di interpretazione del 'reale' e su quanto è instabile, parziale, soggettiva nel suo lavoro.
E riesce a farlo raccontando anche i fatti: le cose sono vive, concrete, visibili; il campo d'atterraggio dell'aereo, la barca rovesciata nel fiume, la ragazza dal braccio monco, il giovane hippie che sogna di camminare sulle acque. Ma il punto rimaniamo noi, il nostro girare incessante intorno ad alcune cose, alcune persone, cercando di afferrare qualcosa che non si lascia prendere ma neppure ci abbandona.





giovedì 2 febbraio 2017

Il nascondiglio di Cristophe Boltanski

Cristophe Boltanski, reporter francese, ha scritto un bellissimo romanzo sulla storia della sua famiglia paterna: nel 2015 ha vinto il Prix Fémina ed è appena stato pubblicato in Italia da Sellerio.
È una famiglia di uomini e donne brillanti conosciuti nell'élite culturale della capitale francese, ma non solo: Christian Boltanski, zio dello scrittore, è un'artista di fama internazionale, lo zio Jean Elie è stato un linguista, il padre Luc Etienne un sociologo, il nonno Étienne un medico, la nonna Myriam è stata scrittrice, la zia Anne scrittrice e fotografa.

Cristophe ricostruisce il percorso della famiglia mettendo al centro della struttura la casa di Rue de Granelle dove ancora vivono alcuni dei familiari; è il luogo in cui  si svolse quasi completamente la vita di un nucleo talmente coeso e compatto da sembrare a tratti un unico essere vivente a più teste e a molte gambe e braccia che si sostengono a vicenda.
Si inizia dal cortile, dalla Cinquecento parcheggiata e dagli assurdi viaggi tutti stipati in quello spazio stretto, per portare il nonno Étienne al lavoro o per fare un viaggio fino a Odessa. A partire dal cortile e dall'auto si scopre una famiglia che si muove in gruppo, come un unico corpo, tutto intorno alla Mère-Grand Myriam, che cammina a fatica causa poliomielite ma guida a tutta velocità quasi per ribellarsi all'immobilismo al quale è costretta.
Sembra lei il motore immobile attorno al quale gli altri cercano la loro posizione, adattandosi a farle da appoggio o passeggero, facendosi portare e supportandola a seconda del caso.
Ma procedendo di stanza in stanza, la casa assume sempre più il ruolo di protagonista, fino ad arrivare al suo centro, al nucleo nascosto, al grembo che ha generato una storia, una mitologia, una malattia, tanta creatività. È il rifugio, la 'cache' (come nel titolo originale), il nascondiglio nel quale il nonno Étienne cercava raccoglimento e solitudine nella sua tendenza al ritiro; ma ancora più nascosto, invisibile a tutti, c'è il vero cuore vuoto, la vera 'cache' della narrazione: un ambiente di pochi metri quadrati, nel quale Étienne rimase nascosto quasi due anni, quando in Francia vennero applicate le leggi razziali più estreme. Una reclusione dalla quale non si riprese mai del tutto e che si saldò con l'immobilismo vitalissimo della moglie: da quel nascondiglio emerse una famiglia consolidata nella sua diffidenza, nella sua paura verso il mondo.


"Avevamo paura. Di tutto, di niente, degli altri, di noi stessi. Del cibo avariato. Delle uova marce. Delle folle e dei loro pregiudizi, dei loro odî, delle loro bramosie. Delle malattie e dei mezzi impiegati per contrastarle. Della compressa ingerita dopo un’attenta lettura del dizionario Vidal. Dell’asfissia con il gas di città. Degli annegamenti in mare. Di una valanga in montagna. Delle macchine. Degli incidenti. Della gente in divisa. Di chiunque fosse investito di un’autorità, dunque del potere di nuocere. Dei moduli ufficiali. Dei ricorsi amministrativi. Della piccola come della grande storia. Delle gioie ingannevoli. Del bianco che presuppone il nero. Delle persone oneste che, a seconda delle circostanze, possono trasformarsi in criminali. Dei francesi che si definiscono buoni, in contrapposizione a coloro che giudicano cattivi. Dei vicini indiscreti. Della reversibilità degli uomini e della vita. Del peggio, perché è assicurato. Questa apprensione la mia famiglia me l’ha trasmessa molto presto, quasi alla nascita."

La casa e la madre coincidono nella patologia del cordone ombelicale mai reciso, nella camera in cui si dorme tutti insieme, perché solo insieme si può affrontare la notte, le tenebre, la separazione del sonno. Ma il percorso prosegue, muovendosi verso l'alto e contemporaneamente verso il futuro: la soffitta nella quale Cristopher elabora tutta la sofferenza della famiglia impastando palline di terra, raccogliendo oggetti-ricordo, iniziando a lavorare sul tema della biografia e della memoria come costruzione privatissima è universale, allo stesso tempo. Perché è storia di tutti, il voler fermare la memoria ed il sapere che niente rimane: come i battiti di una moltitudine di cuori registrati e archiviati su un'isola giapponese dall'artista, che rimangono come traccia di vite che non ci sono più, non sono più in quel luogo, forse non pulsano più.

In soffitta, come un innesto, il padre Luc aveva costruito al giovane Cristophe una casetta: un nido, ancora una volta un rifugio, dentro una casa che è tutta modellata sulla chiusura; ma lassù il ragazzo può immaginare una fuga sui tetti, protetto dai fantasmi che lo zio sciamano controlla sotto di lui. Ed entrambi, insieme a tutti gli altri, trovano dai loro nascondigli la voglia e la spinta per vivere ed uscire nel mondo. Senza mai dimenticare il male, che è sempre in agguato. E ricominciando ancora una volta a raccontare, perché la potenza della narrazione e del lavoro sulla propria storia sono l'unica strada per nascere ancora una volta, venire al mondo con le parole e la creazione e parlare dei pochi, per parlare di tutti. Ostinandosi a 'dar forma a una materia' che per sua natura si sfalda, nel bene e nel male.

martedì 31 gennaio 2017

La casa tonda di Louise Erdrich

“Le donne non si rendono conto di quanto gli uomini fanno assegnamento sulla regolarità delle loro abitudini. Noi assorbiamo nei nostri corpi i loro andirivieni, nelle nostre ossa i loro ritmi. Il nostro polso è regolato sul loro, e come sempre in un pomeriggio festivo si attendeva che mia madre cominciasse a scandire i minuti che ci separavano dalla sera. E così, come potete capire, la sua assenza fermò il tempo.”

La vita del giovane Joe - tredici anni e tre amici, Angus, Cappy e Zack - viene sconvolta di colpo. Una domenica la madre Geraldine esce di corsa dopo aver ricevuto una telefonata e torna tardi, sanguinante e sfigurata dai lividi, scampata alla morte per un soffio: qualcuno l'ha aggredita e stuprata, poi ha tentato di darle fuoco. È riuscita a fuggire, ma da quel momento non è più la stessa: passa le giornate a letto, rifiuta il cibo, non parla; non racconta neppure che cosa sia accaduto.
La casa diventa un luogo carico di ansia, un edificio con al centro un vuoto; l'assenza della madre, che vegeta al piano di sopra, tormenta Joe ed il padre, il giudice Coutts, e li travolge in un altalena di rabbia e sconforto. Joe, insofferente di fronte alla apparente passività dei genitori, si mette alla ricerca di indizi attorno alla 'casa tonda', luogo in cui è avvenuto l'aggressione: il terreno nei dintorni è in parte sotto la giurisdizione della 'riserva indiana' alla quale appartiene la famiglia di Joe, in parte è compresa all'interno di un parco del governo federale. Le indagini sono bloccate in partenza: un 'bianco' non può essere accusato dalle leggi della riserva.

Seguendo le tracce di un legal-thriller e allo stesso tempo di un romanzo di formazione, Luise Erdrich narra la vita quotidiana e la precarietà di una riserva indiana nel Nord Dakota, tra difficoltà burocratiche ed economiche, violenze e impasto di culture. Joe e i suoi giovani amici crescono tra cattolicesimo e tradizioni tribali, storie di fantascienza (Star Trek, dal quale sono tratti i titoli dei capitoli) e racconti degli anziani che finiscono sempre per parlare di sesso e di famiglie allargate in ogni modo possibile.
La crescita di Joe avviene attraverso lo scontro con i genitori, attraverso la paura e la rabbia, gli amici ed il sesso; il ragazzo si muove di continuo, da una famiglia all'altra, da un amico all'altro, dal vecchio sciamano al parroco ex-marine; l'ansia di capire, di trovare il colpevole per rimettere le cose a posto non gli dà tregua. Il male del mondo gli è piombato addosso in un momento e fatica ad accettare che niente sarà mai più come prima, ha dovuto assaggiare la mela avvelenata della conoscenza ed il paradiso è perduto per sempre. Dovrà fare i conti con il mondo qual è, tra ingiustizie ed errori e violenze indicibili; riempire il vuoto lasciato dalla madre madre e dal padre, per ritrovarli quando sarà carico di errori quanto gli altri adulti che ha attorno.
Il controverso rapporto tra legge e giustizia è qui narrato in una delle situazioni in cui la distanza è grande: il romanzo di Louise Erdrich è soprattutto testimonianza, denuncia dell'impunità che ha lasciato tantissime donne delle riserve indiane abusate e abbandonate dalla legge in quello che Amnesty International ha definito nel 2009 'labirinto di ingiustizie'
Il ritmo non sempre trova un suo equilibrio, ma il ritratto che esce degli uomini delle donne della riserve è ricco è pieno di vita, divertente e commovente. Vale la pena di conoscerli.

'Non puoi capire se uno è indiano da una serie di impronte digitali. Non puoi capirlo dal nome. Non puoi capirlo nemmeno da un rapporto della polizia locale. Non puoi capirlo da un ritratto. Da una foto segnaletica. Dal punto di vista del governo, l'unico modo in cui puoi capire se uno è indiano è quando guardi la storia di quella persona....essere un indiano è, per molti aspetti, un incubo burocratico