lunedì 31 luglio 2017

Una famiglia americana di Joyce Carol Oates




 Ma quanto è radicato il sogno americano della Famiglia Felice realizzata in amore e laboriosità protestante? Quanto ancora è vivo nella cultura di un paese perchè i suoi migliori scrittori sentano il bisogno di colpirlo, metterlo alla prova, vederlo distrutto?


I Mulvaney sono una tribù composta da genitori, quattro figli e numerosi animali (cavalli, cani, gatti, uccellini) che vivono in una grande fattoria nello stato di New York in un clima di caloroso e allegro caos. I genitori, Corinne e Micael John, ancora giovani ma emancipati dalle difficili famiglie di origine, si innamorano nel momento in cui insieme salvano un’anatra in difficoltà - quello sarà per sempre il momento fondante della loro unione. Gli slanci di Corinne (testardi, a volte ridicoli) e la solidità di Michael costruiscono la fiaba e la fanno vivere fino al giorno in cui il male non entra nelle loro vite. Accade qualcosa a Marianne, l’unica figlia femmina, la luce dei loro occhi, quella che aveva loro rubato il cuore più di tutti gli altri fratelli. E tutto si sfalda. Le miserie vengono alla luce, la prova non viene superata. Se si tratta di sopravvivenza del più forte, allora bisogna mostrarsi più forti, picchiare, minacciare, gridare; oppure scomparire e non lasciarsi contaminare dalla sconfitta; non entrare in acqua per aiutare l’animale in difficoltà, girarsi dall'altra parte per non vedere. Qual è la scelta vincente, per sopravvivere? Il perdono è un opzione accettabile o un’assurda fantasia masochista alimentata dalle fiabe cristiane?
Joyce Carol Oates, classe 1938 (in questi giorni in Italia), scrittrice di una quarantina di romanzi e di opere di altro genere, ha pubblicato Una famiglia americana nel 1996: il romanzo è considerato uno dei suoi capolavori. Il tema della violenza, in particolare il tema della violenza sulle donne, è spesso al centro dei suoi lavori. Ha una scrittura che cattura, un ritmo in crescendo che prende alla gola e non molla la presa. Confesso che sono spesso diffidente nei suoi confronti e mi tengo un po’ a distanza. Ma la famiglia Mulvaney mi ha davvero conquistata: mi sono arrabbiata e mi sono commossa. Una pastorale americana in versione leggermente pop? Forse. Leggetelo, sì. Decisamente sì.

Swing time di Zadie Smith

Swing time di Zadie Smith è il romanzo di una mente acuta, un'attenta osservatrice della società contemporanea a diversi livelli. La traccia principale segue la storia di un'amicizia femminile che nasce insieme alla passione per la danza, nella zona povera e multiculturale di Londra; la protagonista e l'amica Tracy, entrambe figlie di coppie miste, non dimenticano mai di essere minoranza; il loro corpo segna il loro destino ad un continuo confronto con l'altro, il diverso, il privilegio e lo svantaggio. Un romanzo che ci mostra il potere del corpo, come strumento di gioia e di prigionia e che utilizza la storia della danza anche come una storia di incontro tra culture. Le pagine più belle, dedicate ai numerosi viaggi in Gambia della protagonista, al seguito di un'artista che si dedica alla beneficenza, sono le migliori, bellissimi reportage di un mondo lontano e delle difficoltà degli aiuti calati dall'alto. Per raccontare la complessità di un mondo stretto tra diverse contraddizioni (bianchi/neri, neri/mano neri, ricchi/poveri, talento/disciplina, corpo/mente) Zadie Smith sceglie una voce narrante della quale non viene mai svelato il nome, una giovane donna ancora senza forma e senza strada che cerca la propria casa lasciandosi andare al caso, tra voglia di riscatto e legami con la propria storia. Un lavoro di grande impegno, di notevole intelligenza, che lascia un senso di tristezza nonostante i tanti passi di danza. Forse perché la narratrice, a cui Zadie Smith si affida per raccontare il mondo, non riesce proprio a trovarci un senso, che un senso non ce l'ha.

La morte della farfalla di Pietro Citati


La vita di Francis Scott Fitzgerald e della moglie Zelda raccontati dalla inconfondibile voce di Citati, che scrive come se avvolgesse i personaggi in spirali di intuizione, girando loro intorno, di nuovo intorno, finché non coglie il punto esatto, finché non li fissa in una immagine illuminante: a fine lettura si desidera riprendere in mano tutti i romanzi dell'autore o autrice di cui Citati ha raccontato e miglior risultato non potrebbe esserci.
La famosissima coppia ebbe una vita di successi e baratri, scintillante mondanità e sofferenze profonde: la grave forma di schizofrenia di Zelda, l'alcolismo di Scott, il loro legame saldissimo nonostante i litigi, i tradimenti, le separazioni forzate - a partire dall'esplosione della malattia Zelda venne ricoverata a intervalli fino alla sua morte. Bellissimo il titolo, che rappresenta sia Fitzgerald (Hemingway ne parlò a un certo punto come di una farfalla dalla cui ala tutta la polvere iridescente è sparita), sia la moglie Zelda (definita da un medico 'una farfalla dalle ali bruciacchiate'), sia quella volontà di catturare l'effimero che fu una costante della scrittura del grande romanziere. L'effimero del momento che sfugge, della felicità che si sposta sempre un po' più in là, lasciandoci esclusi dalla luce, dal 'risplendente flusso della vita'.
'E' come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza. Si ferma e indora qualche oggetto insignificante, e noi poveri idioti cerchiamo di afferrarlo – ma quando lo afferriamo il raggio di sole si sposta sopra qualcos'altro'
Nell'ombra, nella fatica, nel dolore del nostro vivere lontani dall'eden intravisto, leggendo Citati siamo accanto a Gatsby (a Scott, a Zelda) fermi al buio, a guardare le luci della vita sulla riva opposta, a pensare che non importa, 'domani correremo più velocemente, tenderemo le nostre braccia più lontano…'

'Così continuiamo a battere l’acqua, barche contro corrente, risospinte senza posa nel passato”, l'epitaffio scelto da Scott per l'infinito.

Il Ministero della suprema felicità’ di Arundhati Roy

“Mi piacerebbe scrivere uno di quei racconti sofisticati in cui, anche se non succede niente, ci sono moltissime cose di cui parlare. Un racconto del genere non può nascere in Kashmir. Quello che succede qui non è sofisticato. C’è troppo sangue per la buona letteratura”.


Tilo, una delle protagoniste de ‘Il Ministero della suprema felicità’ scrive per frammenti, prende appunti, ritaglia articoli di giornale, è sempre alle prese con ‘reperti’ da nascondere o conservare come testimonianza della follia che continua a imperversare sul Kashmir, uno dei luoghi più belli e più tormentati del pianeta. Immagino che Arundhati Roy con queste parole abbia voluto mettere in guardia il lettore: l’urgenza di raccontare nasce in lei da una passione politica e umanitaria che rischia di distrarre la scrittrice dall’attenzione alla forma, essenza dell’arte. Il desiderio di poter scrivere un racconto ‘sofisticato’, in cui i fatti siano pochi e possano essere tenuti sotto controllo con attenzione per il ritmo e gli equilibri, deve essere abbandonato di fronte alla necessità di raccontare quello che accade oggi -è quello che è accaduto ieri- in quell’immenso e complesso paese che è l’India. I percorsi narrativi principali sono due: da una parte la storia di Anjum, transessuale che vive in un cimitero e raccoglie intorno a sé una corte di ‘paria’ di ogni tipo; dall’altra quella di Tilo, donna silenziosa intorno alla quale ruotano tre uomini, e i cui destini si incrociano diverse volte, tra Delhi e il Kashmir. Anjum e Tilo finiranno per incontrarsi in quell’oasi di libertà che è diventato il cimitero, dove nonostante la povertà e la precarietà della situazione si respira un’aria meno opprimente che in ogni altro luogo del racconto.
Arundhati Roy, vent'anni dopo il grande successo de ‘Il Dio delle piccole cose’ ha pubblicato il suo secondo romanzo; nel frattempo ha scritto vari testi di saggistica e si è dedicata a diverse battaglie che riguardano l’India, e a partire dall’India tutto il mondo. Il romanzo riprende con passione (con rabbia, con dolore) le tante sofferenze che ha conosciuto il paese in tutti questi anni: dalla strage di Bhopal alla persistente divisione in caste della cultura indiana, dalla questione femminile a quella dei ‘diversi’ di ogni genere. Con una forte preoccupazione, che emerge dal romanzo e dalle interviste, per il degenerare della democrazia indiana in una sorta di ‘fascismo induista’, e le conseguenti derive estremiste delle comunità islamiche. Un mondo dove ci si ammazza quotidianamente e dove le linee di definizione delle identità variano pericolosamente e soffocano gli individui. E tra tutte le rivolte, i massacri, le follie, la linea guida di ogni guerra, da che mondo è mondo: quella” usuale: la guerra dei ricchi contro i poveri’.

La lettura de Il Ministero mi ha spesso riportato alla mente (per contrasto e vicinanza) ZeroK di Don De Lillo. Le immagini angosciose che assalivano il protagonista americano attraverso mega
schermi sono le stesse, solo un po’ più vicine. E il senso di follia che il contrasto tra quelle immagini (catastrofi, devastazioni, massacri) e le capsule per la vita eterna hanno qualcosa a che fare con i grandi magazzini scintillanti che crescono accanto a marciapiedi affollati di malati che attendono cure senza speranza.
(Il paragone fa storcere il naso, ne sono sicura: eppure…)
P.S. La capacità umana di dividersi in gruppi identitari che lottano gli uni contro gli altri è illimitata e il sistema delle caste indiano o dei gruppi islamici che si oppongono all’occupazione induista avrebbero molto da insegnare alla nostra sinistra, se hanno bisogno di idee per ulteriori frammentazioni . (Parentesi sciocchina, per riprendere fiato).

Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy

Al confine tra Texas e Messico, un giovane uomo fugge con una valigia piena di dollari che gli è capitata tra le mani e alla quale non ha saputo resistere. Ha fatto uno sbaglio, però, cedendo alla pietà e ritornando sul luogo del ritrovamento. Ora lo hanno individuato e non avrà mai più pace. Due uomini lo inseguono (almeno due, ma sono di più): il vecchio sceriffo Bell, incapace di capire la violenza senza misura che si trova ad affrontare e il sicario Chigurh, incarnazione del Male, che segue logiche folli con le quali non ci si può misurare. Un intreccio che era già sceneggiatura prima che i fratelli Coen ci mettessero le mani per creare l'omonimo bellissimo film, un meccanismo che porta inesorabilmente ognuno al proprio destino, il linguaggio asciutto, veloce e cristallino di McCarthy. Un mondo di uomini segnati dalla violenza (Bell è un eroe della seconda guerra mondiale, Moss un reduce del Vietnam) che si trovano a fare i conti con la follia. Palma d'oro ai lanci di moneta di Chigurh, un'idea semplice che McCarthy trasforma in una potentissima immagine della vita che si perde in un attimo.

Elegia americana di Jack Vance


"Qui vi racconto la vera storia della mia vita, ed è la ragione per cui ho scritto questo libro. Voglio che la gente sappia cosa vuol dire arrivare quasi a perdersi, perché può succedere a tutti. Voglio che sappia come vivono i poveri e qual è l'impatto psicologico che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che capisca cosa ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia."

Il grande successo di 'Elegia americana' di Jack Vance è strettamente legato alla sua natura ibrida tra memoir e riflessione sociologica, che ha portato la critica statunitense ad etichettarlo come libro indispensabile per capire come gli USA sono arrivati alle elezioni di Trump. J.D. Vance dichiara apertamente qual è lo scopo del suo libro: raccontare come vivono i milioni di proletari bianchi di origine scozzese e irlandese i cui antenati erano braccianti, poi mezzadri o minatori, poi meccanici od operai. In antitesi ai WASP, gli eroi di Vance vengono chiamati hillbilly (buzzurri, bifolchi), redneck (colli Rossi) o white trash (spazzatura bianca). Con dichiarato orgoglio di appartenenza Vance racconta di una comunità alla deriva, diffidente verso ogni diversità ma con un profondo attaccamento alla famiglia e alla patria; la recessione industriale ha portato nel mondo degli hillbilly un altissimo tasso di disoccupazione, una endemica diffusione della droga e una conflittualità di coppia che determina divorzi a ripetizione, botte tra genitori alcolizzati, interventi della polizia che caricano sull'auto uno dei genitori, sotto gli occhi dei vicini e dei figli, abituati a scene di quel tipo.
Elegia americana non è un romanzo, Vance ha un'ambizione diversa, quella di capovolgere l'ottica con la quale si guarda al problema. La grave disoccupazione degli hillbilly non ha, a suo parere, un rapporto inevitabile con il pessimismo e la disperazione dei suoi amici e familiari (la madre di Vance ha avuto una lunga storia di tossicodipendenza e di instabilità familiare): io ce l'ho fatta, dice Vance, sono entrato alle Yale ed ora ho un buon lavoro, una bella casa, una moglie due cani; le difficoltà esistono, ma l'atteggiamento disperato e deresponsabilizzato di tanti 'poveri' non è giustificabile, anche se comprensibile; Vance punta il dito sugli atteggiamenti che rendono la situazione peggiore di quanto non sia già, come la pretesa di essere sostenuti dal welfare, di potersi permettere di perdere un lavoro, di acquistare più di quanto ragionevole. Sono tutti temi cruciali in questo periodo della nostra storia (la storia di un 'occidente' che vede aumentare le cifre della povertà) e Vance dice la sua, in modo semplice (semplicistico?): io ce l'ho fatta, anche grazie ad alcuni sostegni (una nonna durissima che spesso imbracciava il fucile), e voi cosa state aspettando?

All'ombra delle fanciulle in fiore di Marcel Proust

L’amore per Gilberte, figlia di Odette e di Swann, veduta per la prima volta in una delle passeggiate ‘dalla parte di Swann’, associata per sempre ai biancospini, al profumo del vento, alle fantasticherie riguardo Odette, elegantissima arrampicatrice sociale, che Swann aveva sposato proprio quando il suo amore per lei era cessato. L’amore come fraintendimento, come autoinganno, come reazione a qualcosa che sfugge, incapace di vedere davvero la persona che ne diviene l’oggetto. L’incanto per le cerimonie della società, il desiderio di entrare in contatto con un mondo diverso - gli artisti, lo scrittore Bergotte e l’attrice Berma. La delusione, ogni volta, nel confronto tra l’immaginazione e la realtà. Il bisogno di capire, capire di più. I distacchi vissuti come morte, le novità che portano angoscia. L’abitudine come ritorno al rassicurante mondo stabilizzato e non più pericoloso. Il mare, Balbec, la luce, le luci, il mare, il mare, il mare. Il pittore Elstir, tramite per vedere una nuova realtà (arte che educa alla vista): e infine le fanciulle, il polipaio multiforme, l’attrazione diffusa per quel caos primigenio di giovinezza, salute, occhi ridenti, ciocche di capelli, brezza marina. Il mutare di ogni cosa, ogni persona, di noi stessi e dei nostri pensieri e ricordi, il mutare incessante che ci impedisce di afferrare la realtà nel momento in cui la si vive, il bisogno di ricostruirla, di ripensarla, renderla eterna attraverso la sua rappresentazione.

Una storia nera di Antonella Lattanzi


Per funzionare, funziona. E' costruito molto bene, mantiene un ritmo costante (affannato, come un respiro spezzato) e svela un particolare dopo l'altro con giusto equilibrio, tenendo il lettore allacciato alla storia grazie alla tecnica più sfruttata del mondo: ma cosa è successo? chi è stato? Perché il romanzo di Antonella Lattanzi ha la struttura di una detective story, senza che compaia nessun investigatore (ma ci sono il giudice, gli interrogatori e la stampa che alimenta l'interesse morboso per la cronaca nera).
Il materiale su cui lavora Lattanzi è il rapporto malato di una coppia, la violenza del marito, i figli cresciuti in quella atmosfera di pericolo costante e legati al padre da un amore ambiguo ma fortissimo, alla madre da un amore protettivo e a volte inquieto. Il padre scompare e il cadavere viene ritrovato in una discarica, l'ultima ad averlo visto è la moglie, o forse l'amante, oppure il figlio. Il meccanismo si mette in moto e ci trascina da una vita all'altra, con il carico di dolore che si trovano a gestire.
Un ennesimo buon prodotto, che va benissimo, per carità. Ma siamo lontanissimi, sia chiaro, dalla....letteratura come arte? 
(per correttezza vorrei dirvi che i commenti che ho letto in giro sono positivi, a volte anche molto)

Del dirsi addio di Marcello Fois

“Non tutte le luci fanno chiarezza. Nel regno dell'aria questo è un principio assodato: non troppo buio che sottrae, non troppa luce che moltiplica.”

L'ultimo romanzo di Marcello Fois, scrittore amabile ed amatissimo, è un noir ambientato in una fredda e buia Bolzano, che vede impegnato il commissario bolognese Sergio Striggio nell'indagine per la assurda scomparsa di una bambino di undici anni.Una vicenda che ruota inevitabilmente intorno ad un nucleo familiare e che porta l'indagine a trasformarsi in uno specchio nel quale il commissario rivive il suo difficile rapporto con il padre. L'anima (buia, luminosa) di Sergio Striggio divora l'indagine e diventa la protagonista di un romanzo che trascura la trama, trascura le indagini e si perde nei ricordi e nelle emozioni del commissario. Il padre malato si presenta a casa del figlio per una resa dei conti (del dirsi addio) e Sergio si scontra con il compagno Leo che lo accusa di non avere il coraggio di rendere pubblico il loro amore.
Tra sferzate di pioggia, declinazioni di luce e metafore avviluppate, Sergio compie il suo percorso e conclude le indagini. Qualcosa viene ritrovato, qualcuno è perso per sempre.
C'è qualcosa di buono e di urgente, al centro di questa storia, il cui cuore pulsante mi sembra essere un grande amore tra due uomini: intorno il buio, un po' di luoghi comuni, una lingua che a tratti fatica a sciogliersi in ritmo. Sull'orlo del romanzo davvero buono (e non è poco, forse), mi ha anche fatto arrabbiare, a partire dalla dedica. “ Ci sono persone che per un paradiso presunto/fanno della terra un inferno:/ questo romanzo è dedicato a tutti gli altri”. Sono saltata sulla sedia e ho rischiato di chiudere lì, nonostante la bella copertina, il bel titolo e i 17 euro appena spesi.

L'Arminuta di Donatella di Pietrantonio


Uno dei libri più letti ultimamente e molto amato dai lettori. Una favola ben strutturata sulla sopravvivenza di una ragazzina abbandonata due volte: prima dalla vera madre, che la affida ad una parente ancora neonata, poi dalla madre adottiva che la riconsegna alla famiglia d'origine senza spiegazioni. L'Arminunta, 'la ritornata' si trova a fare i conti con le ristrettezze economiche ed affettive della famiglia 'naturale': la legge di sopravvivenza regola i rapporti tra genitori e figli, la costrizione fisica che li tiene troppo vicini non lascia spazio per intimità e affetto. Ma la lacerazione profonda, dopo la cacciata dal paradiso terrestre della più agiata famiglia adottiva, è la ricerca del senso da dare a questo abbandono: cosa ha fatto la ragazzina per averlo meritato? La madre è davvero malata così gravemente? L'Arminunta si arma di rabbia e si stringe alla sorella minore appena conosciuta, per affrontare i segreti degli adulti incapaci di prendersi cura di loro. Linguaggio piacevolmente asciutto con qualche pennellata lirica che mi ha ricorda la Ferrante (i corpi, i fiati, gli umori, il sangue); un racconto onesto, con qualche clichè sulla famiglia povera e con una struttura basata sulla suspence (ma perchè è stata restituita? e si finisce il libro aspettando di scoprirlo: il mistero si svela e mi è piaciuta la scelta). 'Intrattenimento' di buon livello, ma di più non saprei dire.

La strada di Swann di Marcel Proust



L'infinita tastiera sulla quale si muove Proust, la ricchezza e la varietà della nostra anima inesplorata.

'...il campo aperto al musicista non è una meschina tastiera di sette note, ma una tastiera incommensurabile, ignota ancora quasi per intero, dove solo qua e là, divisi da folte tenebre inesplorate, alcuni tra i milioni di tasti che la compongono, esprimenti tenerezza, passione, coraggio, serenità, dissimili gli uni dagli altri come un universo da un altro universo, sono stati scoperti da qualche grande artista, che, risvegliando in noi il corrispondente del tema trovato, ci presta il servigio di mostrarci qual ricchezza, qual varietà nasconda, a nostra insaputa, la vasta notte impenetrata e scoraggiante della nostra anima, da noi scambiata per vuoto e nulla'

Nel guscio di Ian McEwan

'Oddio, potrei anche essere confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito - se non fosse la compagnia di brutti sogni' dichiara Amleto, tormentato dai fantasmi della violenza domestica dei quali deve farsi vendicatore. Ian McEwan, sollecitato dall'immagine del guscio, dà voce ad un essere ancora letteralmente 'in utero', un essere vivente non ancora gettato nel caos del mondo. Al riparo nel ventre materno, a testa in giù, pieno di nostalgia per il 'sacco opalescente nel quale fluttuava immerso nella bolla sognante dei propri pensieri' il giovanissimo essere pensante non può più rimanere isolato: costretto a tenerel'orecchio premuto giorno e notte contro le pareti del grembo, ascolta, riflette, impara. Il piccolo Amleto, parodia del tragico principe di Danimarca, si trova alle prese con una situazione simile, seppur capovolta di segno: la madre è l'amante dello zio e progettano una vita insieme, perfino l' omicidio del legittimo padre ed ex-marito. La tragedia si tinge di farsa e il celeberrimo 'to be or not to be' si incarna in domande meno metafisiche: nascere ed essere adottato, privandosi quindi degli agi di una ricchezza e cultura borghesi? Vivere senza il padre, per sempre legato ad una madre amata e odiata? Non nascere affatto, evitando il rischio e facendo violenza a se stesso per punire i malvagi? Queste le domande che non lasciano tranquillo il nascituro.

Svegliare i leoni di Ayelet Gundar-Goshen



' Non le piaceva pensare così, ma lo pensava. Che erano meno svegli e più rancorosi. Che erano patetici perché avevano perso e pericolosi perché avevano perso, due cose che sembrano inconciliabili, ma in realtà non lo sono.'

Eitan Green, brillante neurochirurgo, si è stato appena trasferito con la famiglia nella cittadina di Beer Sheva, vicino al deserto; quando ha scoperto che il suo superiore (e maestro) accettava bustarelle lo ha ingenuamente denunciato al primario, ma la punizione ha colpito lui. La rabbia per la vicenda non lo ha ancora abbandonato, è stato costretto ad abbandonare il cuore della città per ritrovarsi in un luogo in cui la polvere si infiltra in ogni cosa. E' un uomo rigoroso, di principi saldi, eppure disprezza la povertà che lo circonda e rimpiange la metropoli, il centro, le comodità, il prestigio. Tutta quella polvere non la sopporta proprio e lavarsi le mani è per lui più di una necessità igienica; ha bisogno di sentirsi incontaminato, sterilizzato. 
Una notte, dopo venti ore di lavoro, invece di tornare a casa decide di concedersi una cavalcata in fuoristrada su una pista che gli è stata segnalata ed è qui che investe un uomo, un eritreo, sicuramente clandestino. L'uomo ha il cranio fracassato ed Eitan non ha dubbi: morirà entro breve e nessun intervento lo potrebbe salvare. Sono soli, lui e il moribondo, nel deserto lunare; l'eritreo non ha scampo ed Eitan decide velocemente di salvare e stesso e la propria famiglia dalle indagini, dalle accuse, dalle possibili ripercussioni sulla propria carriera. Torna a casa, si infila a letto e dorme a lungo. La mattina dopo alla sua porta trova una donna nera, con il suo portafogli in mano: lo ha visto, sa cosa è successo e in cambio del silenzio pretende da Eitan aiuto per curare alcuni clandestini in un garage. Eitan accetta e la sua vita si trasforma in un incubo di bugie e di orrore, di rabbia e disperazione. La donna richiede continuamente la sua presenza, i pazienti sono sempre di più, bambini uomini donne, feriti ammalati trascurati; li cura e li detesta e odia la donna che lo costringe a quello sforzo. Non è la pietà che si risveglia in Eitan, ma la presa di coscienza che quegli uomini e quelle donne esistono: questa volta non può rimanere pulito, non può lavarsene le mani.
Romanzo a tema che riesce ad evitare il rischio di essere troppo didascalico, anche se le parti più sentite mi sono sembrate quelle che descrivono le sfumature dei rapporti familiari, con quell'attenzione al nucleo marito-moglie-figli sempre ben raccontato nella narrativa israeliana.
Ayelet Gundar-Goshen, scrittrice israeliana, affronta il tema dello 'straniero' evitando il territorio più narrato del conflitto con gli arabi, forse per allargare lo sguardo ad una dimensione più generale: come (non) vediamo gli altri se questi potrebbero mettere in crisi il nostro consolidato benessere . La povertà e la sporcizia, i disgraziati, quelli che il fiume della storia ha trascinato in giro come detriti, spesso fanno proprio questo, senza volerlo: ci chiedono chi siamo, quali sono i nostri valori.

Le cure domestiche di Marylinne Robinson

Le cure domestiche, esordio di Marylinne Robinson venticinque anni prima di Gilead, contiene già i temi intorno ai quali si aggira la ricerca della scrittrice: l'identità, la casa e le perdite. La storia di Ruth e Lucille inizia infatti con l'abbandono da parte della madre Helen, che le lascia alla nonna, nella cittadina di Fingerbone, prima di gettarsi nel lago. Le bambine vengono cresciute dalla nonna, poi dalle cognate e infine dalla zia Sylvia, richiamata a casa proprio per occuparsi di loro. Ruth e Lucille, tra una perdita e l'altra, crescono nella vecchia casa della nonna, costruita per lei dal marito Edmund, un impiegato delle ferrovie cresciuto nel Midwest e arrivato quasi per caso a Fingerbone, alla ricerca di un paesaggio meno piatto di quello da cui fuggiva. Ma la cittadina è costruita su un lago, il terreno su cui sorgono le case un tempo apparteneva all'acqua e capita che il vecchio lago ritorni e allora il terreno diventa fango e poi acqua melmosa, le cantine si allagano, nel frutteto si forma uno stagno di 'acqua chiara come l'aria che copriva erba e foglie nere e rami caduti, tutt'intorno altre foglie nere ed erba fradicia e rami caduti, e sopra, lieve come l'immagine in un occhio, il cielo, le nubi, gli alberi, le nostre facce librate nell'aria e le nostre mani fredde'.

La più amata di Teresa Ciabatti

'Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia del Professore. La gioia, l’orgoglio, l’amore del Professor Lorenzo Ciabatti. Che lo sappiate tutti – paesani, poveri, invidiosi – guardateci passeggiare nel corso, io e lui vicini vicini, oh, papi, e voi che vi fermate a salutarlo, e lui che vi risponde con un semplice cenno del capo, come il papa, come dio, lui che risponde alle vostre celebrazioni, tenendo per mano la sua bambina. Solo lei. Solo me. La più amata.'

Un romanzo di cui si è parlato molto, elogiato da critici e scrittori. Teresa Ciabatti racconta la sua infanzia e la sua adolescenza, alla luce di quello che oggi ha saputo e che allora poteva solo vagamente intuire senza consapevolezza. La sua storia si intreccia con uno dei tanti misteri italiani, il fallito golpe Borghese del 1970 e la massoneria. Ma non è questo l’interesse principale del romanzo, non è sulla ricostruzione precisa di quella che è stata la storia di Lorenzo Ciabatti, primario chirurgo dell’ospedale di Orbetello affiliato alla massoneria, che si trovano le ragioni profonde della scrittura: tutto ruota intorno alla bambina che è cresciuta con quel padre che tanto ha amato e che l’ha profondamente tradita.
La scena iniziale si svolge in piscina, nella piscina della lussuosa villa di Orbetello dove Teresa viveva con la famiglia. L'azzurro del cielo e dell'acqua, un coccodrillo verde con cui gioca la ragazzina. Arriva un uomo, ha una pistola; il padre dice che se ne deve andare con lui, ma che tornerà presto: si tratta di un sequestro, anche se la moglie e i figli non se ne rendono conto del tutto, un sequestro anomalo, il padre ritorna davvero il giorno dopo. Ma quella piscina e quel sequestro sono il centro di un'infanzia segnata da un contesto familiare e sociale fondato sul potere. Il padre è un uomo ammirato, amato, ossequiato in mille modi nel paese di Orbetello: i pazienti portano al suo studio cibo e animali (una delle prime scene racconta il dono di una gallina da parte di un paziente), medici e infermieri sono sempre disponibili come autisti, muratori, idraulici, commessi (sono loro a comprare i regali che la bambina chiede al padre). Teresa è la sua principessa, o almeno è quello che crede di essere: la più amata. Ma la più amata chiede sempre di più, in una specie di sfida con il silenzio della madre, che dorme, acconsente, non si fa sentire abbastanza: i genitori decidono di allontanarla dal paese, il contatto con una realtà diversa non potrà farle che bene. Da quel momento inizia per Teresa l'esilio dal regno fatato del paesello dove tutti la conoscono, dove è la figlia del dottor Ciabatti e tutti la trattano con riguardo. È la prima prova di quello che sarà poi il suo destino: perdere tutto quello che credeva di possedere per diritto divino, il potere sugli altri e sul padre, il privilegio di essere la più amata dall'uomo più importante di quel microcosmo.
La voce di Teresa Ciabatti adulta si nasconde dentro alla voce della ragazzina, ma spesso è la voce della bambina a impossessarsi dell'adulta che scrive. È una voce esplosiva, tagliente, di una ironia feroce e beffarda, piena di desiderio di rivalsa e rivendicazioni. È la voce di una bambina che è stata ingannata, alla quale è stato offerto un regno fondato sulle tenebre e poi le è stato tolto proprio dal padre tanto amato e ammirato. E’ una voce di grande intelligenza, di grande sensibilità linguistica, un monologo delirante e divertente e molto carico di una sofferenza che viene talmente esibita da alimentare il sospetto che il vero dolore non ci sia stato svelato. Anche se Teresa Ciabatti ha scelto una maschera per sé stessa che gioca sulla esibizione della sincerità, anche scomoda, come l’ammissione di essere una donna di quarantaquattro anni che ancora dà la colpa ai genitori delle proprio mancanze, o patologie, o difficoltà - chiamiamole come vogliamo. E qui sta il limite, a mio parere, di un romanzo molto bello che poteva esserlo di più. La voce dei bambini, quando soffrono - come quella degli adulti nei tanti momenti di regressione - è un monologo su se stessi. Il mondo intorno, le ragioni degli altri, la voce delle sofferenze diffuse non vengono messe a fuoco: un equilibrio maggiore avrebbe reso ‘La più amata’ non solo un buon romanzo (e buono lo è senz'altro) ma un grande lavoro.

Il nido di Tim Winton


Australia, uno sfondo da cartolina: mare, natura, sole. Tom Keely è un uomo allo sbando: ha perso il suo lavoro di stimato ecologista per un gesto impulsivo che l'ha portato ad una accusa di diffamazione; ha perso la sua vita matrimoniale dopo che la moglie ha scelto di non portare a termine una gravidanza problematica e indesiderata; ha perso l'equilibrio e vive ai margini della sana e solare società australiana. Si è chiuso nel suo nido, all'ultimo piano del Mirador, un grattacielo abitato da persone che non sono riuscite ad entrare nel circolo virtuoso del benessere economico. Da lassù guarda l'orizzonte, contempla cielo e mare, in uno stato confusionale da abuso di alcool, droghe e psicofarmaci: dal suo nido non esce volentieri, il contatto con la gente lo confonde e lo irrita, il progresso pagato al prezzo della devastazione ambientale lo disgusta. Se ne sta chiuso là in cima, lontano da tutti, ad ascoltare il vento in bilico sul precipizio. Quando scopre che una sua vecchia conoscenza abita in un appartamento vicino cerca di sfuggire ad ogni rapporto: ma Gemma ha con sé il nipote Kai, un bambino segnato da una vita persa in partenza e Tom lentamente si avvicina al loro mondo. D’altra parte sono degli sconfitti, come lui. Quella che in partenza sembrava la storia di un idealista in lotta contro il potere si sviluppa invece in modo più profondo e pone al lettore domande centrali: cosa significa essere perdenti? Qual è la misura giusta nel combattere per una buona causa? Quanto ci si può avvicinare ai vinti senza rischiare di farsi trascinare nel gorgo insieme a loro? La famiglia di Tom Keely (il padre, la madre, la sorella) sono sempre riusciti a dedicarsi alle cause giuste senza perdere una briciola della loro posizione sociale; l'inutile idealismo di Tom, che gli ha rovinato la carriera, la vitalità esuberante e rabbiosa di Gemma, il dolore di Kai che lascia intravedere un futuro problematico, non sono allo stesso livello perchè portano i segni evidenti di chi non riesce a corrispondere alle aspettative della società. Bellissimi ritratti di personaggi ai quali ci si affeziona lentamente ma profondamente, in particolare un bambino che si vorrebbe abbracciare e una donna che non ha nessuna carta buona da giocare ma nessuna intenzione di darsi per vinta. La domanda che lascia il romanzo, alla fine della lettura: quanto siamo disposti a perdere per combattere le nostre battaglie?