martedì 3 gennaio 2017

Kobane calling di Zerocalcare

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Che bravo, Zerocalcare. Ha scritto e disegnato una storia bellissima e necessaria, in questi tempi nerissimi di semplificazione forzata, di urlatori senza alcuna passione se non quella del proprio interesse, di paure e recinti. Al di là di ogni credibilità, a partire da quei centri sociali che oramai sembrano ai più una barzelletta fuori tempo massimo, Zerocalcare ha conosciuto la storia dei curdi, se ne è appassionato e ha deciso di andare a vedere sul posto se poteva capirci qualcosa di più. Un viaggio nel novembre del 2014, un secondo a luglio 2015. Come tanti, era rimasto affascinato da Kobane, dall'incredibile storia di quelle donne e quegli uomini che quasi completamente soli hanno subito l'invasione dell'Isis ma poi li hanno cacciati via dalla città, a partire da un terrazzo: perchè pare che questo gli fosse rimasto, di tutta Kobane, un terrazzo in cima a una palazzina occupata già al primo piano. Zerocalcare è andato laggiù anche per capire meglio qualcosa del Rojava, una striscia di terra divisa in tre cantoni che i curdi hanno proclamato autonoma: nella stretta tra i territori occupati dall'Isis, Turchia e Iraq, la confederazione democratica di Rojava tenta di tenere in piedi una società basata su un carta costituzionale che si fonda sulla libertà e integrazione di ogni etnia e sul rispetto delle differenze, a partire da quelle di genere. Studiano molto, in Rojava, perché dicono che la formazione è il primo passo da fare e una delle materie è (incredibile) il lavoro sul femminile e sul maschile; una riflessione che è diventata pratica e ha creato rapidamente unità di donne combattenti autonome ed autogestite. Ma il viaggio non si ferma alle guerrigliere curde, belle, brave e coraggiose; il percorso si arrampica in seguito sulle montagne dove vivono, si nascondono e si addestrano gli uomini e le donne del PKK, dichiarati terroristi a livello internazionale su richiesta della Turchia.

Le scoperte del viaggio sono tante e davvero vale la pena di leggerlo anche per avere una ulteriore conferma di quanto gli stereotipi siano lontani, sempre, dalla realtà delle persone, dalla loro incredibile unicità, dalle loro storie. Ma soprattutto è un libro che parla, con intelligenza e commozione, a quella zona del nostro cuore (o cervello, o anima o quel che è) che in questi anni sembra essersi contratta fino a scomparire: quella che ti dice che ci sono battaglie giuste (non guerre, su questo la faccenda si fa più complessa), che il mondo può essere qualcosa di meglio di così, che una direzione bisogna averla, ritrovarla, altrimenti continueremo a vagare smarriti tra talk-show deliranti, sterili proteste e campanilismi condominiali. È uno sguardo utopistico? Sì, dichiaratamente. Ma il non-luogo in questione è una terra attraverso la quale sta passando il filo della storia e non è una patria immaginaria di una nuova umanità, ma molto di più: un esempio, uno scarto, una possibilità di pensare a qualcosa di diverso. Naturalmente, è una terra che puzza di cadaveri e di macerie e noi siamo davvero fortunati ad essere un passo più in là.

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