martedì 31 gennaio 2017

La casa tonda di Louise Erdrich

“Le donne non si rendono conto di quanto gli uomini fanno assegnamento sulla regolarità delle loro abitudini. Noi assorbiamo nei nostri corpi i loro andirivieni, nelle nostre ossa i loro ritmi. Il nostro polso è regolato sul loro, e come sempre in un pomeriggio festivo si attendeva che mia madre cominciasse a scandire i minuti che ci separavano dalla sera. E così, come potete capire, la sua assenza fermò il tempo.”

La vita del giovane Joe - tredici anni e tre amici, Angus, Cappy e Zack - viene sconvolta di colpo. Una domenica la madre Geraldine esce di corsa dopo aver ricevuto una telefonata e torna tardi, sanguinante e sfigurata dai lividi, scampata alla morte per un soffio: qualcuno l'ha aggredita e stuprata, poi ha tentato di darle fuoco. È riuscita a fuggire, ma da quel momento non è più la stessa: passa le giornate a letto, rifiuta il cibo, non parla; non racconta neppure che cosa sia accaduto.
La casa diventa un luogo carico di ansia, un edificio con al centro un vuoto; l'assenza della madre, che vegeta al piano di sopra, tormenta Joe ed il padre, il giudice Coutts, e li travolge in un altalena di rabbia e sconforto. Joe, insofferente di fronte alla apparente passività dei genitori, si mette alla ricerca di indizi attorno alla 'casa tonda', luogo in cui è avvenuto l'aggressione: il terreno nei dintorni è in parte sotto la giurisdizione della 'riserva indiana' alla quale appartiene la famiglia di Joe, in parte è compresa all'interno di un parco del governo federale. Le indagini sono bloccate in partenza: un 'bianco' non può essere accusato dalle leggi della riserva.

Seguendo le tracce di un legal-thriller e allo stesso tempo di un romanzo di formazione, Luise Erdrich narra la vita quotidiana e la precarietà di una riserva indiana nel Nord Dakota, tra difficoltà burocratiche ed economiche, violenze e impasto di culture. Joe e i suoi giovani amici crescono tra cattolicesimo e tradizioni tribali, storie di fantascienza (Star Trek, dal quale sono tratti i titoli dei capitoli) e racconti degli anziani che finiscono sempre per parlare di sesso e di famiglie allargate in ogni modo possibile.
La crescita di Joe avviene attraverso lo scontro con i genitori, attraverso la paura e la rabbia, gli amici ed il sesso; il ragazzo si muove di continuo, da una famiglia all'altra, da un amico all'altro, dal vecchio sciamano al parroco ex-marine; l'ansia di capire, di trovare il colpevole per rimettere le cose a posto non gli dà tregua. Il male del mondo gli è piombato addosso in un momento e fatica ad accettare che niente sarà mai più come prima, ha dovuto assaggiare la mela avvelenata della conoscenza ed il paradiso è perduto per sempre. Dovrà fare i conti con il mondo qual è, tra ingiustizie ed errori e violenze indicibili; riempire il vuoto lasciato dalla madre madre e dal padre, per ritrovarli quando sarà carico di errori quanto gli altri adulti che ha attorno.
Il controverso rapporto tra legge e giustizia è qui narrato in una delle situazioni in cui la distanza è grande: il romanzo di Louise Erdrich è soprattutto testimonianza, denuncia dell'impunità che ha lasciato tantissime donne delle riserve indiane abusate e abbandonate dalla legge in quello che Amnesty International ha definito nel 2009 'labirinto di ingiustizie'
Il ritmo non sempre trova un suo equilibrio, ma il ritratto che esce degli uomini delle donne della riserve è ricco è pieno di vita, divertente e commovente. Vale la pena di conoscerli.

'Non puoi capire se uno è indiano da una serie di impronte digitali. Non puoi capirlo dal nome. Non puoi capirlo nemmeno da un rapporto della polizia locale. Non puoi capirlo da un ritratto. Da una foto segnaletica. Dal punto di vista del governo, l'unico modo in cui puoi capire se uno è indiano è quando guardi la storia di quella persona....essere un indiano è, per molti aspetti, un incubo burocratico

venerdì 27 gennaio 2017

La figlia dell'altra di A. M. Homes

"Era il suo incubo, aveva sempre temuto che arrivasse qualcun e mi portasse via. Sono cresciuta sapendo che era la sua paura, e sapendo in parte che non aveva niente a che fare con è che venivo portata via, ma col suo primo figlio, che era morto subito prima della mia nascita. Sono cresciuta con la sensazione di essere tenuta a distanza. Sono cresciuta con la rabbia dentro."

Quello che A.M. Homes ha in qualche modo sempre aspettato, quello che la madre adottiva ha sempre temuto, un giorno accade: la madre biologica si mette in contatto con loro, chiede di poter rivedere la figlia, abbandonata trentun anni prima, pochi giorni dopo averla partorita.
L'equilibrio che la giovane scrittrice si era faticosamente costruita, venendo a patti con la sensazione di 'essere tenuta a distanza' da parte di entrambe le sue due madri e con la rabbia di chi sente di essere sbagliato, impossibile da amare, in difetto dalla nascita, crolla di colpo. Il senso di estraniazione si fa più acuto di fronte alla presenza reale della madre su cui tanto aveva fantasticato: quella che poteva essere una regina, un'artista, una divinità scintillante, si incarna in una voce roca che cerca rassicurazioni alle proprie ansie, chiedendo alla figlia di essere adottata da lei, di essere amata ed accolta. I contatti telefonici con questa sconosciuta che l'ha messa al mondo mettono in moto emozioni profonde, accendono curiosità, aspettative, paure.

"Ogni sfumatura, ogni dettaglio significa qualcosa. È come recuperare la memoria tutta in un colpo dopo un'amnesia. Cose che so di me, cose che esistono senza il linguaggio, il mio hardware, i meccanismi di accensione del pensiero, parti di me che sono fondamentalmente, inesorabilmente me, vengono riecheggiare all'altro capo del filo, confermate come due stringhe di Dna che combaciano. Non è una sensazione del tutto rassicurante"

Il contatto con la madre porta in breve tempo alla conoscenza del padre, già sposato quando ebbe una relazione con la giovane donna che rimase incinta della protagonista: lui non se la sentì di lasciare la famiglia, lei non ebbe la forza di crescere la bambina da sola.
L'incontro con i genitori naturali si rivela un percorso difficile, spesso deludente. Ma il bisogno di sapere riemerge ancora più potente, al di là di ogni impossibile rinascita. Il memoir di A.M. Homes si trasforma a un certo punto in una caparbia ricerca genealogica, durante la quale frammenti di storie altrui, uomini e donne che possono avere a che fare con la sua famiglia d'origine ma che spesso si rivelano frutti di rami diversi, prodotti di altri alberi, apre la dimensione del privato ad un respiro più ampio, ad un interesse per le storie di tutti; alla luce di una possibile 'parentela' l'interesse illumina i particolari di una moltitudine di esseri viventi che hanno vissuto e sono scomparsi, senza che di loro vi sia più memoria. La struttura autobiografica cambia ritmo, si fa ricerca minuziosa, ossessione.
" Va avanti per mesi, a ondate. Scarto e raccolgo informazioni finché, esausta e spesso scoraggiata, mi fermo, mi ricompongo e ricomincio....Continuo a scavare di quando in quando, a spizzichi e bocconi, raccolgo i frammenti di centinaia di vite"

La ricerca diventa interesse, ma gli interrogativi più urgenti sono ancora senza risposta, raccolti in un capitolo di domande per il padre sfuggente. Nel finale la conclusione del percorso si sposta, senza preavviso, su un personaggio diverso: l'ultimo capitolo è un ritratto pieno di calore e riconoscenza per la nonna adottiva, che chiude la ricerca delle sue radici. Il viaggio tra genitori e il loro doppio, attraverso lettere, conversazioni, telefonate, incontri nei bar, ricerche in archivio si ferma ad un tavolo, un grande tavolo di legno: il tavolo della nonna, il luogo dello scrivere. Le radici sono lì, dove si è formato quello che la protagonista ha scelto di diventare, figlia di tutte le sue famiglie e delle donne e uomini che le hanno indicato la via, e nipote, poi madre, e sempre scrittrice.

Una scrittura asciutta e intelligente, una confessione onesta e diretta che ci ricorda quanto la nostra storia sia parte della nostra identità; e che sapere è sempre meglio, anche se fa male.






































sabato 21 gennaio 2017

Come le vene vivono del sangue di Gaia De Pascale

'Tuttavia qualcosa, in me, non ha mai smesso di essere in procinto di cedere, come se una crepa fosse sempre sul punto di aprirsi per i movimenti tellurici della mia anima. Ma era la troppa vita, quella che forzava le pareti, fino a venare la crosta esterna nella quale tutti, intorno a me, hanno sempre cercato di stringermi'.

Il romanzo biografico di Gaia De Pascale racconta con partecipata attenzione la vita della poetessa e fotografa Antonia Pozzi, suicidatasi a soli ventisei anni. La voce narrante è quella di Antonia, in un lungo percorso di recupero della propria storia, durante il tempo dilatato che trascorre sul limite tra la vita e la morte, quella lunga attesa dell'angelo della poesia di Silvia Plath posta in apertura del testo (la stessa tecnica era già stata utilizzata, tra gli altri, da Melania Mazzucco nella suo romanzo dedicato al Tintoretto e intitolato appunto 'La lunga attesa dell'angelo').
Per trovare la voce di Antonia, Gaia De Pascale ha studiato le poesie, le lettere, tutto il materiale biografico disponibile e le testimonianze di chi l'aveva conosciuta; il linguaggio che è nato da questo incontro tra due donne lontane è una prosa scorrevole, in equilibrio tra poesia e narrazione veloce: ci permette di conoscere Antonia bambina, la casa di Milano e quella di Pasturo, in una conca verdeggiante circondata dalle montagne, dove Antonia visse i suoi momenti più felici, più fisici: le corse di bambina si trasformano nelle arrampicate da ragazza, spesso accompagnata dall'amico Tullio, che condivideva con lei la passione per la poesia e quella per le montagne.

'Parlavamo di letteratura, e di amore, e di come l'unica sacralità sia quella che emerge dalle stonature, da un incepparsi dello spirito, dall'urto di un'anima contro un'altra anima, o di un'anima contro le cose. In una parola: della poesia'

La vita a Milano è dedicata allo studio e alla scrittura - anche l'amore, quando lo incontra, si sovrappone e si mescola alla passione intellettuale, un amore che non riuscirà ad essere 'fecondo' e che le lascerà una ferita profonda: lui è Antonio Maria Cervi, suo professore di letteratura, uomo votato alla rinuncia e alla dedizione alla cultura. La giovane Antonia forse coglie la 'stonatura', la crepa di una anima storpia che fa della cultura la propria stampella: se ne innamora, ma l'incontro non li aiuterà.

'....ognuno ha il proprio lume per andare incontro alla notte - e non gli è dato condividerlo con altri'

Eppure Antonia è giovane, gli studi la appassionano, ha buone amiche, frequenta menti vivaci e interessanti - Vittorio Sereni, tra gli altri. Nonostante il clima dell'Europa si faccia sempre più cupo Antonia si avvicina a chi si oppone, si invaghisce dell'azione ribelle, partecipa alle sofferenze degli amici ebrei costretti a fuggire dall'Italia. Ma tutta questa vita non basta ad allontanarla da quel richiamo verso l'abisso che sembra accompagnarla, sotto traccia, per farsi più forte nei momenti difficili.

Di fronte all'infelicità di una ragazza benestante, dotata, brillante e vivace è davvero difficile capire che cosa non abbia funzionato, cosa l'abbia portata a 'cedere', ad abbandonarsi all'abbraccio mortale di quella terra coperta di neve che l'aveva chiamata a sé già in altre occasioni. Gaia De Pascale si mantiene a distanza dalla tentazione di cercare spiegazioni. Lascia che siano le parole di Antonia Pozzi - la sua tensione verso le altezze, i cieli più azzurri, i paesaggi solitari e imbiancati, le sue descrizione di sé stessa come un contenitore sul punto di rompersi per troppa vita, per troppa costrizione di un'anima che vorrebbe espandersi all'infinito - a tracciare una mappa della sofferenza che l'ha portata a rinunciare.

Il mistero rimane, e rimangono le sue poesie: un'occasione per conoscerle meglio.

'Ho scelto il punto che mi pareva più immacolato, e ho fatto quello che dovevo fare, senza paura o ripensamenti. Ho guardato ancora una volta in alto, verso quel biancore senza fine, e poi in basso, con una forza tale come se fosse possibile, per i miei occhi, mettere a fuoco l'abisso'.


martedì 17 gennaio 2017

La vegetariana di Han Kang

Yeong-hye è una donna silenziosa, senza pretese, quasi invisibile. Il marito racconta di averla scelta proprio perché aveva pensato che non gli avrebbe creato problemi e non avrebbe avanzato richieste eccessive. È un uomo pratico, non ha tempo e voglia per le difficoltà. Tutto sembra procedere come previsto quando una notte il marito trova Yeong-hye immobile in cucina, al buio, davanti al frigorifero. Non risponde alle domande, non reagisce, sembra sonnambula.
'Ho fatto un sogno...' è l'unica frase che pronuncia. Da quella notte tutto cambia: Yeong-hye ha deciso che non mangerà più carne, né uova, neppure derivati del latte. Da un momento all'altro, per un sogno. Non spiega, non ha motivazioni razionali (scelta salutista, decisione etica) per la sua decisione. Semplicemente, non vuole più, mai più, mangiare qualcosa di animale, neppure cucinarlo. Il marito non si dà pace per questa follia, la famiglia si preoccupa e cerca di convincerla, ma Yeong-hye non cede. Il padre della donna tenta di forzarla ed il gesto violento provoca una reazione estrema.

Preferirei di no', dice Yeong-hye. Ma lo dice con il corpo, perché le parole le sono già lontane. Il corpo diventa l'unica zona di libertà in una situazione vissuta come costrizione; la donna che non aveva pretese diventa la donna che continua a non chiedere niente agli altri e gioca la partita tutta su sé stessa.
"E' il tuo corpo, puoi trattarlo come ti pare. L'unico territorio in cui sei libera di fare come preferisci."

Narrato a tre voci il romanzo passa dal punto di vista del marito di Yeong-hye a quello del cognato, marito della sorella In-hye, un videoartista che guarda alla donna affascinato da quella strana bellezza sempre più magra e pallida; quel corpo provoca in lui desideri potenti al punto da desiderare di coinvolgerla in una performance che ne esalti la natura 'vegetale' alla quale Yeong-hye sembra avvicinarsi sempre di più.

Ma è la voce della sorella che si avvicina di più ad una comprensione profonda della sofferenza di Yeong-hye. La sorella, che si era salvata da un contesto familiare duro e violento, incarnando la parte della donna efficiente e responsabile, figlia-moglie-madre amorevole e paziente, riconosce il nucleo profondo della sofferenza e quello che comporta il 'gioco delle parti' delle costellazioni familiari. Perché anche impazzire fino ad annientarsi comporta una responsabilità verso gli altri, quella di costringerli ancor di più nel ruolo di coloro che resistono, ce la fanno, vanno avanti.

"Non era più in grado di far fronte a tutto ciò che la sorella le ricordava. Non aveva saputo perdonarle di essersi involata da sola al di fuori di un confine che lei non era mai riuscita a varcare, non aveva saputo perdonare quella meravigliosa irresponsabilità che aveva permesso a Yeong-hye di liberarsi dalle costrizioni sociali, lasciandola indietro, ancora prigioniera. E prima che Yeong-hye spezzasse quelle sbarre, lei non sapeva neppure che esistessero."


La storia de 'La vegetariana' è una storia di ribellione silenziosa, di rifiuto del mondo spinto fino alla dissolvenza estrema. Clinicamente si potrebbe parlare di anoressia o di schizofrenia, ma non è questo il centro dell'interesse di Kar War, che vuole invece esplorare la ricerca di 'purezza', il sottrarsi di una donna alla violenza inscindibile dal nostro stare al mondo: la sua metamorfosi da umano a vegetale ricorda la fuga di Dafne, la sua preghiera di diventare albero per fuggire al rischio di subire violenza da Apollo, di essere coinvolta nella passione carnale che è il centro pulsante dell'essere vivi, del nostro essere nel mondo partecipandone appieno.

Il corpo di Yeong-hye, centro di questo romanzo, è un corpo che subisce, da parte degli altri, diverse violenze: il padre la picchiava, il sesso con il marito è un dovere da sopportare, persino i fiori che le verranno dipinti dal cognato sono comunque una scelta non sua, alla quale si adegua passivamente. Perfino la macchia mongolica che le è rimasta dall'infanzia, quella zona azzurro-blu, ricorda un livido. Un corpo che subisce e che decide di diventare protagonista: a costo di annientarsi.

 'La vegetariana' ci parla del mistero insondabile di chi decide di scivolare via, trasformarsi in terra, evaporare come rugiada; lasciando noi a chiederci se avremmo potuto fare di più. Con quel pizzico di voglia di lasciarsi andare da tenere a bada. Un bel romanzo, che si avvicina più al territorio del mito che a quello della sociologia, come il titolo potrebbe far pensare. Un tema che fa paura, ricchissimo di spunti: davvero viene voglia di riprendere in mano 'Le metamorfosi' di Ovidio.

(la bellissima immagine di copertina è del fotografo giapponese Nobuyoshi Araki, che lavora sui temi dell'erotismo e dei corpi femminili)









domenica 15 gennaio 2017

Il fucile da caccia di Inoue Yasushi


'L'uomo è una stupida creatura che dopotutto aspira ad essere conosciuta da qualcuno"

Il famose breve romanzo di Inoue Yasushi, pubblicato nel 1949 dal giornalista e poeta giapponese, è un testo di perfetto equilibrio costruito con una prosa scorrevole e pulita e strutturato sui molteplici punti di vista attraverso la tecnica dell'epistolario.
Il racconto si apre con la voce del narratore, tipica figura di testimone di seconda mano, che racconta di come si sia trovato a scrivere una poesia per una rivista di caccia; non avendo nessuna passione per quella pratica risolve il problema descrivendo la figura di un cacciatore intravisto durante una passeggiata, adatta ad esprimere una sorta di associazione tra il fucile da caccia e la solitudine. Il cacciatore è accompagnato da un setter, lungo un sentiero ghiacciato, con un Churchill a doppia canna: ricorda un guerriero splendente e solitario, sempre solo, in luoghi deserti, calmo e freddo, accompagnato dal fucile gli preme sul fianco: scava, quel fucile, nella carne e nello spirito di quell'uomo solitario.

'Da quel giorno all'improvviso mi accade, nelle stazioni delle città, /nelle strade affollate di notte,/ di pensare: Ah, potessi camminare anch'io come lui! /Con quel passo così lento, calmo, freddo. /E ogni volta nei miei occhi chiusi /a fargli da sfondo non è il ghiacciato paesaggio del monte Amagi all'inizio d'inverno / ma il bianco alveo di un fiume desolato, chissà dove. / Il suo fucile da caccia, lucido e splendente, gli preme sul fianco / scavando nello spirito solitario, nella carne solitaria / di quell'uomo di mezza età. / E una strana bellezza, umida di sangue, /emana da lui in quei momenti, / invisibile mentre punta il fucile sulle sue prede."

Questa è la prima delle varie immagini attorno a cui ruota la vicenda, che si sviluppa attraverso quattro lettere. Infatti, in seguito alla pubblicazione della poesia, un certo Misugi Josuke, scrive al poeta per rivelargli che si è riconosciuto in quel ritratto e che, sentendosi compreso, ha provato per la prima volta lo stupido desiderio di far conoscere a qualcuno la propria storia. Per questo gli ha inviato, in busta separata, tre lettere a lui scritte da tre donne, attraverso le quali il poeta potrà ricostruire la trama della parte centrale della sua vita.
 La busta contenente le lettera arriva ed il poeta decide di trascriverle: la prima è stata scritta dalla nipote di Misugi, la giovane Shoko, la seconda dalla moglie di Misugi, l'ultima dalla madre di Shoko, la bellissima Saiko, amante di Misugi.
Ognuna delle donne racconta una parte della storia e soprattutto offre il proprio punto di vista, svelando sentimenti che per tanti anni sono stati completamente taciuti.
La tecnica della suspence, affidata ai diversi punti di vista, funziona e si rimane in attesa costante di conoscere i particolari di questo classico triangolo familiare. La rigidità di certi comportamenti ricorda il triangolo de Le Braci di Marài, vite che bruciano silenziosamente, mentre il silenzio avvolge i loro movimenti controllati.
Ma alcune immagini svelano poco a poco una ricchezza che il testo rilascia in un secondo tempo, dopo la lettura.

'Da bambina, alla festa del tempio Shoten a Nishinomiya, una volta qualcuno mi comprò un fermacarte, un fiore finto, rosso, in una palla di vetro. Cominciai a camminare tenendolo in mano, ma dopo un poco scoppiai a piangere. Probabilmente nessuno allora capì che cosa mi fosse successo. Avevo pensato alla sensazione dei petali di quel fiore, paralizzati, imprigionati all'interno del vetro freddo, petali che nessun vento di primavera o di autunno avrebbe più fatto tremare, petali crocifissi, e il mio cuore si era riempito di una terribile tristezza'.

L'immagine di Shoko, che vede l'amore proibito e segreto come un fiore imprigionato nel freddo, il giovane siriano cresciuto tra le antilopi che fa fremere la moglie di Misugi, i serpenti osservati da Saiko e Misugi ed associati alla parte nascosta di ognuno di loro, il sari indossato da Saiko in attesa della morte: l'alveo solitario del fiume in cui il poeta ha immaginato il cacciatore: dipinti ad acqua (sono giapponesi, saranno acquerelli, no?) che arricchiscono il testo di dettagli e significati non esplicitati diversamente.

Un romanzo lontano da noi, che a tratti risulta di eccessiva rigidità, ma che mi sembra possa ancora affascinare:  la domande chiave (amare o essere amati?) apre comunque la conclusione della storia ad una interpretazione non scontata. Inoltre la  figura del cacciatore solitario e del suo fucile, continua ad aleggiare intorno alle parole delle donne senza concedere altro che il suo allontanarsi silenzioso e solitario. Il suo vuoto e il suo silenzio sono il centro attorno cui nascono le parole delle donne e lasciano a noi il compito di immaginare il significato del suo sottrarsi

giovedì 12 gennaio 2017

Guasto. Notizie di un giorno di Christa Wolf


In attesa di leggere 'L'ultimo amore di Baba Dunja di Alina Bronsky(editore Keller), uno dei cinque titoli scelti da Modus Legendi per il secondo anno della loro iniziativa ( obiettivo mandare in classifica un libro della piccola editoria,l'anno scorso fu la volta di Annie Ernaux)  ho recuperato 'Guasto. Notizie di un giorno' di Christa Wolf, pubblicato nel 1987 (in Italia per la e/o).
La scrittrice tedesca, che diede il suo contributo politico nella DDR, famosa per i testi dedicati a Cassandra e Medea, qui racconta la giornata in cui l'autrice, sola nella sua casa di campagna del Mecleburgo, apprende dalla radio quel che è accaduto a Černobyl' e contemporaneamente attende notizie riguardo la delicatissima operazione al cervello al quale è in quelle ore sottoposto il fratello. Nel frattempo si occupa delle attività quotidiane, strappare erbacce, cuocere un uovo, guardare la tv, quelli che lei stessa definisce 'piaceri durevoli', 'l'impalcatura che sostiene la vita anche durante i tempi morti'.
Quella che potrebbe apparire una semplice cronaca si svela ben presto essere un testo costruito con grande sapienza; l'intervento sul cervello del fratello diventa il tramite attraverso in quale l'autrice può riflettere sulla mente dell'essere umano, sulla funzione del linguaggio e sullo sviluppo dell'intelligenza: l'incidente nucleare la pone di fronte alla possibile distruzione dell'umanità e dell'ambiente 'naturale' per mano della scienza, ossia del punto più alto raggiunto dall'intelletto nel suo desiderio di comprendere il mondo.
Ma comprendere il mondo sembra sia sempre inscindibile dalla volontà o possibilità di distruggere quello che era considerato non divisibile, a-tomos: Černobyl' diventa il nome di un momento, più che di un luogo, nel quale qualcosa nel rapporto tra l' essere umano e il pianeta che lo ospita sembra essere cambiato per sempre: come si potrà, si chiede l'autrice, usare di nuovo le parole 'scoppio' o 'nuvola' senza associarle automaticamente a quel preciso scoppio, a quella temibile nuvola?
Nel frattempo, nel corso della giornata, la protagonista vede alcune persone, con altre parla al telefono, di qualcuno legge una lettera: attraverso di loro viene tracciato un sottotesto 'storico' che evoca la violenza della guerra, delle migrazioni forzate, dello spaesamento: la memoria si mescola ai pensieri sul presente ed il corpo di una bambina seppellita in cortile dopo un'epidemia di tifo si sovrappone a quella 'sorellina' del gioco che l'autrice amava da bambina, una rappresentazione in cui al fratello spettava il ruolo del lupo che sbrana e a lei quella della preveggente e saggia Cassandra che avverte del pericolo.
In chiusura però, lo stesso lavoro di 'scrittura', come forma alternativa del conoscere che ha perseguito la parte femminile della coppia fratello/sorella viene sospettata e rigettata come generata dalla stessa volontà di sezionare, dividere, uccidere tipica della conoscenza 'scientifica' attribuita qui al fratello.
Nel finale, la protagonista si ritrova finalmente sotto alle coperte, nel momento in cui si concede una lettura: e sarà 'Cuore di tenebra' di Conrad ad incantarla, e a recuperare in lei la potenza della parola: ' E anche questo è stato uno dei luoghi tenebrosi della terra. Questo anche. E anche questo'...'Con un'attesa carica di tensione ho continuato a leggere, e dopo poche frasi ho capito: sì, questo Marlowe sa'.

Un testo 'datato', per quanto possiamo sentire lontana la diffidenza per la 'scienza', a tratti più vicino a un saggio che a una struttura narrativa,che riesce però a mantenersi in equilibrio sul filo della riflessione e del racconto. Una grande scrittrice, sempre.

domenica 8 gennaio 2017

Una vita come tante di Hanya Yanagihara

Quattro amici, New York. Malcolm ha una passione per l'architettura, nonostante la disapprovazione dell'agiata famiglia; JB tenta di esprimersi attraverso la pittura di ritratto; Willem desidera diventare attore, un mondo lontanissimo dalla sua disagiata infanzia; Jude (l'oscuro) ha una mente versatile e brillante che lo porta a spaziare dalla matematica alle legge. Il legame tra di loro è forte e nel tempo si approfondisce, nonostante le loro differenze:; JB è ambizioso e a volte cinico, Willemstad e Malcolm sono animi generosi e gentili, Jude è riservato e misterioso: è attorno a lui che ruotano le vite di tutti, è lui il perno intorno al quale ruota questo lungo romanzo, acclamato da critica e lettori con dichiarazioni impegnative. Hanya Yanagihara, scrittrice statunitense di origini hawaiane, tiene stretto il lettore con un buon gioco di suspence e aspettative (nonostante una dose eccessiva di ripetitività) svelando la storia di Jude un poco alla volta, lungo il corso delle 1200 pagine e nello svolgersi della vita degli amici, che seguiamo fino alla maturità avanzata. Il passato di Jude è atroce, lo si intuisce ben presto, ma è circondato da una quantità di amore che lo accompagna costantemente nella sua lotta per svelarsi e per venire a patti con la propria storia.
Un romanzo di buoni e cattivi, il Bene e il Male delle fiabe e del fantasy.
Ma questo non è Il signore degli anelli ed il patto con il lettore, stipulato a partire dal titolo, mi sembra sia di tipo diverso: Hanya Yanagihara ci sta raccontando una storia che potremmo definire verosimile. Facciamo finta di non sapere quanto lontano porterebbe un discorso del genere, per un attimo: direi che qui ci troviamo di fronte ad un problema di credibilità. Io credo all'esistenza di Castorp sulla montagna incantata, credo all'esistenza di Emma Bovary, credo ai personaggi della Munro e della Robinson, credo al fantasma che tormenta il protagonista di Mucchio d'ossa di Stephen King. Non ho creduto, invece, a buona parte dei protagonisti di Una vita come tante: non ho creduto a Willem, quasi mai; a Jude, solo in parte; non ad Harold e ad Andy; a JB concedo più credito, ad altri ancor meno. Troppo buoni, i buoni: e troppo talentuosi, troppo di successo, troppo belli. I cattivi, invece, sono semplicemente troppi per quantità. Che tutto questo sia possibile (la vita ha una fantasia infinita, si sa) non sposta il problema; non si tratta di cosa possa essere reale, ma di quanto possa essere credibile in un romanzo: questione di equilibrio della trama.
Il tema è ovviamente forte e il merito di averlo affrontato (anche bene, in diverse parti) non è cosa da niente; la questione della 'guarigione', di quando un equilibrio possa essere definito abbastanza 'sano' da diventare accettabile, è un altro punto di interesse del romanzo, anche se risente del l'eccesso di dicotomia bene/male dell'impostazione di fondo. Insomma, diversi spunti interessanti, un gran lavoro di costruzione, la capacità di appassionare; ed altrettanti difetti, che potrei sintetizzare come mancanza di profondità, eccesso di estremi e problema di credibilità.
Insomma, no, per me no. Due cose: vorrei tanto poter leggere l'articolo di Mendelsohn che ha criticato il romanzo sul New Yorker (pare unico, tra i grandi nomi della critica statunitense) - l'unica raccolta di saggi critici che ho trovato in italiano di Mendelsohn mi è piaciuta moltissimo e se avessi tempo ecc ecc.; seconda e ultima: le figure femminili, in questo romanzo, non esistono, anche le poche che ci sono. Che strana scelta. Scusate, ne una terza: le case, e i modellini di Malcolm.

venerdì 6 gennaio 2017

Dalla mia Terra alla Terra di Sebastião Salgado



Questa non è una recensione, perché il libro non l'ho ancora letto. È però un invito a conoscere il lavoro e la storia di Salgado, sia attraverso il meraviglioso film di Wenders 'Il sale della terra' sia, per chi è vicino, andando a vedere la bellissima mostra  'Genesi' a Forlì (chiude a fine mese). Dopo una vita dedicata a documentare le miserie umane più terrificanti (dalla carestia del Sahel alla guerra in Ruanda), Salgado si rivolge alla natura per guarire da tutto il male del mondo che gli ha piombato il cuore. Alla ricerca di quello che di straordinario offre il nostro pianeta Salgado non abdica dal suo sguardo sempre politico (ovviamente uso politico nel senso altissimo e pieno del termine: cerca ciò che dobbiamo preservare, quello che è a rischio di estinzione, ancora una volta il 'perdente'. Lo  scatto e la visione si concretizzano in meravigliose creazioni e in un impegno concreto: la sua Fondazione, che sta riforestando una vasta zona completamente distrutta del territorio brasiliano. 'Genesi' è un lavoro meraviglioso che ci invita a godere di tanta bellezza e a far la nostra parte perché non scompaia.

martedì 3 gennaio 2017

Piccoli inconvenienti del vivere di Grace Paley


"Grace Paley, di origini ebreo-ucraine, attivissima politicamente nella lotta per i diritti civili, ha scritto 'solo' una cinquantina di racconti, che l'hanno fatta amare da lettori comuni e da grandi scrittori. Perché ha scritto così poco? le hanno chiesto; lei ha risposto: 'l'arte richiede tempo e la vita è troppo breve; c'è tanto altro da fare oltre a scrivere'.
Ricordo che lessi questa sua dichiarazione tanti anni fa e rimasi colpita da risposta onesta e 'banale' che evidenzia però a quanto si deve rinunciare per dedicarsi davvero alla creazione; la stessa schiettezza si ritrova nelle donne dei suoi racconti, donne sempre alle prese con problemi di figli da crescere e da gestire, con uomini affascinanti ma spesso inaffidabili, con problemi economici e faccende quotidiane. Donne 'pragmatiche' e allo stesso tempo appassionate, dentro ai dettagli della vita, attente e allegre, mai vittime, neppure nelle situazioni più difficili.
'Piccoli contrattempi del vivere': è un uomo a definire così la disastrosa situazione di una giovane donna che il marito ha lasciata con tre figli piccoli, senza alcuna entrata economica; piccoli contrattempi, dice lui, uomo timorato di Dio con moglie e figli che diventa il suo amante. Una sottile ironia, tipica di una scrittura veloce e intelligente, tutta dialoghi e situazioni ordinarie, che ci regala fotografie di amori e matrimoni, di adulteri e divorzi, di figli piccoli che consolano e di figli grandi che deludono, di brevi momenti erotici e di eterni problemi quotidiani, con un vitalità che impedisce ogni vittimismo.
Il suo stile ritmato, che ha destato l'ammirazione dei più grandi scrittori contemporanei, pare sia notevole soprattutto per la capacità di rendere i dialoghi delle comunità newyorkesi di ceto medio basso e di origini russo-ebraiche, cosa che ovviamente in traduzione non possiamo apprezzare.
Mi viene in mente un titolo di Natalia Ginzburg, Ti ho sposato per allegria: lo troverei adatto alle donne di Grace Paley.
Chiudo con una sua poesia, sulle torte e la scrittura.


Stavo per scrivere una poesia
e poi invece ho fatto una torta mi ci è voluto
quasi lo stesso tempo
ovviamente la torta era una stesura
finale invece una poesia avrebbe richiesto un po’ più
di distacco prima di essere ultimata giorni, settimane e
molta carta appallottolata nel cestino

la torta ha subito trovato un suo pubblico
che si precipita tra macchinine
e camion di pompieri sul
pavimento della cucina

piacerà a tutti questa torta
fatta di mele, mirtilli
e albicocche secche molti amici
diranno perché ne hai fatta
solo una
non succede lo stesso con le poesie.”





Il tempo dell'attesa e Confusione (I Cazalet vol.2 e 3) di Elizabeth Jane Howard

Risultati immagini per il tempo dell'attesa
Risultati immagini per confusione elizabeth jane howard
'Il tempo dell'attesa' e 'Confusione' sono il secondo e terzo volume della lunga saga familiare dedicata da Elizabeth Jane Howard ai Cazalet. Dopo il primo volume dedicato agli 'anni della leggerezza', nel quale predomina lo sguardo infantile, seguiamo la crescita dei personaggi più giovani della famiglia, in particolare le 'piccole donne' Louise, Clara e Polly che attraversano gli anni dell'adolescenza con la sensazione di essere 'bloccate', dal mondo degli adulti e dalla guerra, in un presente noioso e ripetitivo, nel quale i loro desideri non hanno risposte e le loro domande vengono rifiutate. Sono gli anni in cui cominciano a capire qualcosa della misteriosa vita degli adulti, ma ancora non abbastanza: difficile capire cosa spinge un padre a toccare il seno alla figlia ragazzina, cosa succede quando un parto non finisce bene o quando una madre si ammala, se gli adulti non aiutano a trovare le parole per fare un po' di luce. Qualcuna delle ragazze è determinata ad avere una carriera artistica, anche per non seguire le orme delle madre che ha rinunciato a tutto dopo il matrimonio; qualcuna invece sogna di potersi innamorare, anche se non ha idea di cosa significhi; gli uomini soffrono per la guerra, devono partire senza vedere i loro figli in attesa di nascere. Negli anni bui della guerra, tra bombardamenti, maschere antigas, sigarette e alcolici, the e razionamenti compaiono i primi pantaloni, le prime calze di nylon, i primi americani. La confusione aumenta, per tutti; ogni vita è in un momento di impasse, dentro a un matrimonio sbagliato, in attesa di un ritorno improbabile, nell'impossibilità di accettare una perdita. Il lavoro di E.J. Howard è imponente per mole, tenuta del ritmo, intreccio; un affresco che se non raggiunge sempre alti vertici di intensità e però capace di appassionare e di farci vivere insieme ai tanti personaggi, di seguirne i destini, di vedere nell'insieme un affresco dei tanti percorsi, soprattutto femminili.

Gli anni della leggerezza (I Cazalet vol.1) di Elizabeth Jane Howard


Risultati immagini per gli anni della leggerezza'La Duchessa apparteneva a un sesso e a una generazione la cui opinione non era richiesta se non per malattie infantili e faccende casalinghe, ma questo non voleva dire che non avesse preoccupazioni più serie: semplicemente, queste facevano parte del vasto repertorio di argomenti di cui non si parlava e men che meno si discuteva tra donne, e non perché, come nel caso delle funzioni corporee, fosse sconveniente, ma perché era del tutto inutile che le donne s’interrogassero sulla politica e sulle vicende del genere umano. Le donne sapevano che il mondo era governato dagli uomini, che il potere lo avevano loro e che, dal potere corrotti, alla minima provocazione mettevano mano alle armi per averne di più, mentre le donne erano costrette a patire le peggiori ingiustizie.'

Nell'estate del 1937 la famiglia Cazalet si riunisce per le consuete vacanze nella dimora di campagna dove vivono i genitori, soprannominati il Generale e la Duchessa. I loro tre figli maschi sono sposati e hanno avuto a loro volta dei figli, così il gruppo è piuttosto numeroso; l'unica figlia, Rachel, non si è mai sposata e dedica le sue giornate alla cura dei genitori.
L'ambiente inglese, la casa di campagna con tanto di domestici ed autisti, riportano a tante letture: è un mondo che è stato raccontato tante volte e che ci è diventato familiare.
La saga di Elizabeth Jane Howard (questo è il primo di cinque volumi) non stravolge il genere, ma lo rinnova dal punto di vista tematico: nelle stanze della famiglia Cazalet si partorisce, si muore, si hanno le prime mestruazioni; il sesso può essere rifiutato, negato, violento, incestuoso ma anche felice e soddisfacente; i bambini e i ragazzi vivono una realtà di dubbi, domande e paure che scompare in un attimo per lasciar posto all'entusiasmo. Sono loro a risultare i personaggi più interessanti e più complessi, forse perché gli adulti sono narrati in parte dal loro punto di vista e risultano a volte stereotipati.
Avevo letto Il lungo sguardo, di E.J. Howard e avevo trovato una scrittura affilata, uno sguardo pietrificato, una durezza anche rabbiosa; nel primo volume della saga dei Cazalet invece lo sguardo è comprensivo e affettuoso, rischiando a volte di delineare alcuni personaggi troppo positivamente (Rachel ad esempio, mi innervosisce parecchio, così come la miracolosa maturazione di Zoe); rimane comunque una attenzione alle ombre di queste vite modellate su un ideale di dignità e buona condotta, che rende l'insieme più interessante
Racconto lineare e appassionante, grazie ai tipici meccanismi della saga familiare un po' soap, ha dalla sua una descrizione interessante di un tempo e di un ambiente e uno sguardo attento agli adolescenti. Una buona lettura, intrattenimento di qualità, con quel pizzico di ambientazione storica che sempre dà soddisfazione trasformando le nostre nozioni in esperienze.

Il romanzo è stato pubblicato in Gran Bretagna nel 1988: in Italia sono ora in corso di pubblicazione i cinque volumi della saga che in patria ha venduto milioni di copie. Jane Elizabeth Howard scriveva fin dagli anni 1950 e dichiarò di non aver mai pensato che il terzo marito, il famoso scrittore Kingsley Amis, scrivesse meglio di lei. Il figliastro Martin Amis ha dichiarato più volte di dovere moltissimo, in termini di formazione, alla sua 'eccezionale matrigna'.

L'anno del pensiero magico di Joan Didion


Risultati immagini per l'anno del pensiero magico libro'La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita'.

Il 30 dicembre 2003 John Gregory Dunne, marito di Joan Didion da quarant'anni, muore all'improvviso, dopo essersi seduto a tavola per la cena. John e Joan erano appena tornati dall'ospedale dove la figlia Quintana era ricoverata in condizioni critiche per un problema polmonare. Tutto accade velocemente, l'ambulanza, gli infermieri, la fine. In un attimo la vita cambia, in un istante la vita che conoscevi è finita.

A un anno dalla morte del marito, Joan Didion riprende a fare quello che ha sempre fatto, scrivere: questa volta con urgenza, con estrema necessità. La sua lunga attività di giornalista, oltre che di romanziera, la aiuta a cercare di dare forma al lutto che l'ha colpita e a trovare le parole per raccontare le difficoltà della mente di fronte ad una perdita così grave. John e Joan condividevano la casa, il lavoro, le giornate; avevano cresciuto una figlia, dopo averla adottata, per quasi quarant'anni; avevano insieme viaggiato, scritto sceneggiature, scelto case, affrontato momenti drammatici. Didion registra, cercando di ricordare, cosa le è accaduto dal momento in cui John si è accasciato sulla sedia quella sera: come il cervello ha iniziato a funzionare per negazioni e vuoti, pensieri scaramantici e associazioni improvvise che colpiscono a ondate. Racconta le strade evitate, le immagini che a tradimento evocano il passato, gli oggetti conservati o nascosti. La scrittura torna e ritorna sui dettagli, su quella sera, sul giorno prima, sulle ultime parole, in un movimento a spirale: quello che trasmette è una grande forza, una volontà di chiarire e di raccontare, di fare luce sui funzionamenti di quella malattia che è il lutto. Un tema importante per il presente, in cui si tende ad allontanare il dolore, a catalogarlo con tanto di tempi appropriati e medicine da assumere se non si guarisce abbastanza in fretta. Un ottimo reportage che ha per oggetto le complesse vie che segue la mente quando deve affrontare l'assenza: un percorso di accettazione che richiede tempi lunghissimi, anche perché richiede, a un certo punto, il coraggio di lasciar andare.

La vita di Joan Didion e di John Gregory Dunne è stata piena di soddisfazioni lavorative ma costellata da alcune tragedie che hanno colpito le persone più giovani intorno a loro. Nel 1982, la nipote Dominique (la bambina di Poltergeist) viene uccisa dal suo ex-fidanzato; la figlia Quintana, dopo una vita di difficile equilibrio in relazione con la sua biografia di bambina adottata, muore due anni dopo il padre: i due anni di cure e ricoveri non hanno risolto la grave infezione polmonare che l'ha colpita. Nel 2009 muore a 39 anni Natasha Richardson, figlia di Vanessa Redgrave e moglie di Lism Neeson, amica intima di Quintana e 'nipote acquisita' di Joan Didion. Nel 2007 Vanessa Redgrave aveva portato in scena un monologo tratto da 'L'anno del pensiero magico'.

Nel 2012 Joan Didion, ormai ottantenne, ha pubblicato 'Blu nights', altro testo non-fiction, memoir dedicato alla figlia e ai ricordi di una una lunga vita.

Kobane calling di Zerocalcare

Risultati immagini per kobane calling


Che bravo, Zerocalcare. Ha scritto e disegnato una storia bellissima e necessaria, in questi tempi nerissimi di semplificazione forzata, di urlatori senza alcuna passione se non quella del proprio interesse, di paure e recinti. Al di là di ogni credibilità, a partire da quei centri sociali che oramai sembrano ai più una barzelletta fuori tempo massimo, Zerocalcare ha conosciuto la storia dei curdi, se ne è appassionato e ha deciso di andare a vedere sul posto se poteva capirci qualcosa di più. Un viaggio nel novembre del 2014, un secondo a luglio 2015. Come tanti, era rimasto affascinato da Kobane, dall'incredibile storia di quelle donne e quegli uomini che quasi completamente soli hanno subito l'invasione dell'Isis ma poi li hanno cacciati via dalla città, a partire da un terrazzo: perchè pare che questo gli fosse rimasto, di tutta Kobane, un terrazzo in cima a una palazzina occupata già al primo piano. Zerocalcare è andato laggiù anche per capire meglio qualcosa del Rojava, una striscia di terra divisa in tre cantoni che i curdi hanno proclamato autonoma: nella stretta tra i territori occupati dall'Isis, Turchia e Iraq, la confederazione democratica di Rojava tenta di tenere in piedi una società basata su un carta costituzionale che si fonda sulla libertà e integrazione di ogni etnia e sul rispetto delle differenze, a partire da quelle di genere. Studiano molto, in Rojava, perché dicono che la formazione è il primo passo da fare e una delle materie è (incredibile) il lavoro sul femminile e sul maschile; una riflessione che è diventata pratica e ha creato rapidamente unità di donne combattenti autonome ed autogestite. Ma il viaggio non si ferma alle guerrigliere curde, belle, brave e coraggiose; il percorso si arrampica in seguito sulle montagne dove vivono, si nascondono e si addestrano gli uomini e le donne del PKK, dichiarati terroristi a livello internazionale su richiesta della Turchia.

Le scoperte del viaggio sono tante e davvero vale la pena di leggerlo anche per avere una ulteriore conferma di quanto gli stereotipi siano lontani, sempre, dalla realtà delle persone, dalla loro incredibile unicità, dalle loro storie. Ma soprattutto è un libro che parla, con intelligenza e commozione, a quella zona del nostro cuore (o cervello, o anima o quel che è) che in questi anni sembra essersi contratta fino a scomparire: quella che ti dice che ci sono battaglie giuste (non guerre, su questo la faccenda si fa più complessa), che il mondo può essere qualcosa di meglio di così, che una direzione bisogna averla, ritrovarla, altrimenti continueremo a vagare smarriti tra talk-show deliranti, sterili proteste e campanilismi condominiali. È uno sguardo utopistico? Sì, dichiaratamente. Ma il non-luogo in questione è una terra attraverso la quale sta passando il filo della storia e non è una patria immaginaria di una nuova umanità, ma molto di più: un esempio, uno scarto, una possibilità di pensare a qualcosa di diverso. Naturalmente, è una terra che puzza di cadaveri e di macerie e noi siamo davvero fortunati ad essere un passo più in là.

Se questo è un uomo di Primo Levi


Risultati immagini per se questo è un uomo

Ho letto ormai molte volte 'Se questo è un uomo'; almeno tre volte dalla prima all'ultima riga, ma spesso a brani, a capitoli. Anche perché mi capita sempre di leggerne alcune pagine in classe, a voce alta. Ogni volta mi tocca profondamente  per l'altissimo livello di intensità poetica e di misura nel narrare l'orrore, di umanità che tiene insieme cuore e mente e non abdica mai, neanche un momento dal compito della conoscenza. È il canto di un uomo che riesce a mantenersi integro, vigile e aperto nella condizione più disperata che ci sia (no, non la più disperata, in realtà: era senza speranza, questo sì, ma non aveva figli per i quali straziarsi, ad esempio). La lettura a voce alta, per un giovane pubblico, amplifica l'emozione e riempie lo spazio dell'aula di una condensa palpabile, che fa calare un silenzio assorto e pieno di echi: quando chiudo il libro i ragazzi rimangono immobili e di solito chiedono: ancora, legga ancora.

Oggi ho riletto, da sola, il famoso brano sul canto dantesco dedicato a Ulisse. È una delle pagine più belle della letteratura italiana; racconta di come, durante una delle  incombenze più fortunate che si potessero ottenere in lager (andare a prendere il rancio a un chilometro di distanza) Primo Levi e l'amico francese Jean si scoprano liberi di parlare e desiderino cogliere ogni istante di quel breve tempo loro concesso: il giorno è  tiepido, si sbattono le ciglia allo splendore del mattino, i Carpazi coperti di neve sono all'orizzonte. Jean vorrebbe imparare l'italiano e Primo decide che certo, subito, bisogna cominciare subito, prima che i minuti volino via e finisca questo spazio di libertà che potrebbe essere l'ultimo. Da dove cominciare, per insegnare la nostra lingua al meglio in un tempo così breve? Dall'Inferno di Dante, da dove altro? Non c'è tempo per apprendere le formule di saluto (buongiorno, arrivederla, grazie mille) e neppure le domande utili per i viaggi (quanto costa? a che ora parte il treno?). Non ci saranno altri viaggi, per loro, e neppure occasioni per mostrare buona educazione.
Mentre Primo si chiede quale brano insegnare all'amico  il tempo scorre veloce, impietoso. E allora, Primo decide che se vuole regalare l'italiano a uno straniero in un battito d'ali, che il dono sia un vertice, sia un mondo, sia quanto di meglio gli si possa offrire: che sia Ulisse.
La mente cerca in affanno quei versi, ne ritrova il ritmo e prova a tradurre, a far capire chi era Dante, cos'è la Divina Commedia, la similitudine della fiamma; Primo Levi si dispera, non ricorda tutto il canto, ed è così difficile spiegare tutto in pochi minuti tempo: 'quante cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino'.
Ma è una tale gioia ricordare quel verso, 'misi me per l'alto mare aperto' e rendersi conto che la stessa costruzione è ripresa in un verso successivo; una tale gioia che è incredibile averla trovata proprio nel lager. Capire qualcosa di nuovo, una delle gioie più profonde che si possano provare, è che questo possa accadere ancora, anche nel momento in cui non si è più niente: questo il miracolo, questa la vittoria; essere vivi, ancora.

Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.'

Recita per Jean ed è come se fosse una nuova scoperta per entrambi: ' come se anch'io lo sentissi per la prima volta' scrive Levi 'come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono'.
Primo e Jean, con le stanghe della zuppa sulle spalle, osano ragionare su quell'Ulisse dantesco che ha osato andar oltre i limiti che gli erano imposti dalla sua condizione: sono in quel momento un solo uomo, tutti e tre, nella stessa capacità di volare alto attraverso la mente, andare oltre, tentare il balzo Lo stesso uomo che risponde con gioia allo squillo di tromba, alla musica della poesia che ci libera dalle nostri prigioni.
Fino a che è possibile, fino a che non ci strapperanno da quella visione, dal sogno, dalla vita.
 'Infin che 'l mar fu sopra noi richiuso' .

Simone Weil di César Brie

Due corpi, su un palcoscenico quasi spoglio e buio, per raccontare la vita è l'anima di Simone Weil, filosofa, sindacalista, combattente, mistica. César Brie è la voce narrante che circonda di affetto la giovane donna, la contiene, la accudisce, la accoglie: è l'infermiere che si prende cura di lei nei giorni della sua agonia, quando si lascia morire nella folle idea di condividere il dolore del mondo attraverso le privazioni;è il padre, che tenta di convincerla a preservarsi e la cura per mesi e mesi, salvandole la vita dopo l'esperienza spagnola; è il poeta Joe Busquet, che la incontra una sola volta ma che sarà il destinatario di lettere nelle quali Simone gli confida la sua conversione al cristianesimo; è il gesuita che vorrebbe dare il battesimo e la comunione, ma che lei rifiuta, perché la sua idea di cristianesimo non può accettare la Chiesa; infine è di nuovo l'infermiere, che tenta fino all'ultimo di farle accettare un sorso d'acqua.
Simone è indomabile, lucidissima, intransigente: ha impressa nel cuore l'immagine di Carlo Magno nel deserto che versa a terra l'acqua che gli viene offerta, un privilegio per il condottiero che lui non accetta perché avrebbe significato rompere l'unità tra sé e l'esercito. Simone seguirà fino in fondo, questa strada, con una volontà che nessuno saprà addolcire, né condurre a più miti percorsi; non si ferma, Simone, neppure per il padre e la madre che la rincorrono e la curano dopo ogni sua battaglia: dopo il lavoro in fabbrica, dove si distrugge di fatica per capire cosa significa essere operaio e sfruttato; dopo l'esperienza tra i combattenti repubblicani in Spagna, quando la pacifista Simone decide che sarebbe insopportabile rimanere in disparte di fronte a quel che sta accadendo; dopo le polemiche che suscitano i suoi scritti contro le repressioni in Russia e la sua profetica visione di quel che accadrà in Germania.
Simone combatte, dorme poco, mangia poco; e intanto continua a scrivere, a studiare. L'Iliade, il poema della forza, nel quale ritrova tutte le forme in cui un essere umano può essere ridotto a cosa ma anche tutte le forme dell'amore, in ogni sua sfumatura, fino all'estremo, quel legame tra Achille e Priamo che consente al padre distrutto di ammirare la bellezza dell'assassino del figlio e al guerriero feroce di sentire la dignità e la grandezza di quel nemico che si inginocchia supplice ai suoi piedi.
Catia Caramia dà corpo a Simone, mostrandoci i suoi occhi accesi, la sua allegria, la sua voglia di vita; occupa lo spazio sempre in movimento, sfuggendo al letto, all'abbraccio, al conforto; Cesar Brie tenta di contenerla con gesti di un amore dolcissimo, senza riuscire. La tazza è versata a terra, il letto attraversato, l'abbraccio scansato per la fiammata di una nuova visione.
I folli di Shakespeare chiudono il discorso: la verità nella forma più pura lambisce il confine con la pazzia e nessuno dà ascolto ai folli. Inascoltata, fedele a sé stessa, lucidamente folle, Simone si congiunge infine con la moltitudine dei sofferenti annullandosi. Polvere alla polvere, o acqua gettata nel deserto.

Sulla lapide di Simone Weil, un misterioso epitaffio recita così: "La mia solitudine l'altrui sofferenza ghermiva fino alla morte". È firmato C.M. è da quelle iniziali César Brie ha immaginato l'unico personaggio di invenzione sulla scena, un infermiere italiano comunista, Carlo Manfredi, che assiste Simone nell'ospedale del Kent dove la donna muore, a 34 anni, il 24 agosto del 1943.

César Brie, regista e attore di teatro argentino, si è rifugiato in Italia negli anni della dittatura; da allora la sua vita e il suo lavoro si dividono tra il nostro paese è l'America Latina.

Boy, Snow, Bird di Helen Oyeyemi


Il libro inizia con il raccontare la storia di Boy, una ragazza di Manhattan, che dopo aver sopportato per vent’anni le angherie del padre sadico, il Rat Catcher, scappa di casa, prende il primo autobus per finire in una piccola cittadina del Massachusetts.

L’ultimo romanzo di Helen Oyeyemi, Boy, Snow, Bird, è un retelling molto particolare della classica fiaba di Biancaneve, ambientato negli Stati Uniti negli anni in cui era ancora dominante la discriminazione razziale.
Qui, disorientata, finisce in una pensione con un gruppo di altri giovani donne e troverà lavoro in una libreria gestita dalla imperiosa signora Fletcher, frequentata tra l’altro da un gruppo di ragazzi di colore che talvolta saltano la scuola per leggere i libri esposti.
Nonostante alcuni screzi iniziali, Boy finirà per sposare Arthur Whitman, vedovo e già padre di una bambina, Snow, che riscuote l’ammirazione incondizionata di tutti.
Alla nascita della figlia di Boy e Arthur, Bird, verrà a galla il terribile segreto della famiglia Whitman, cosa che costringerà la madre ad allontanare Snow per mandarla a vivere con dei parenti in Mississippi.
Da qui il focus si sposta sulla vita delle due sorellastre, le quali, nonostante la loro separazione, intesseranno un forte legame.

La prima parte del romanzo, incentrata su Boy, mi è piaciuta più delle altre, se non forse la parte finale, che si fa più coinvolgente e accattivante.

Il romanzo, comunque, nel suo complesso, è molto bello e deliziosamente scritto, una sorta di storia familiare vista e vissuta attraverso occhi femminili di una madre-matrigna, la figlia adottiva e la figlia naturale.

E se il tema della famiglia è uno dei nuclei del romanzo, esso è presupposto anche per suggerire il tema del riconoscimento di sé, della propria appartenenza e radici.

Le tre protagoniste, infatti, hanno questo in comune: devono scoprire le proprie origini, accettare il proprio passato, comprendere se stesse per arrivare alla consapevolezza, per cercare il proprio posto nel mondo e (ri)tessere i legami familiari – perché dal proprio mondo, alla fine, non si può sfuggire né scappare per sempre e conoscerlo, accettarlo, è la via per diventare una persona completa.
Nella narrazione questo torna, in maniera quasi ossessiva, grazie al simbolo degli specchi, del vedersi (o non vedersi) in uno specchio, quasi lo specchiarsi sia strumento di vera autoconsapevolezza, che non sempre dà le risposte volute, ma indizi sul percorso interiore da seguire per capire se stessi.

L’autrice mirabilmente, soprattutto nell’ultima parte del libro, riesce a sovrapporre triangoli di relazioni (la principale, tra Boy, Snow e Bird, ma non solo) in questa ricerca, suggerendo che esiste una possibilità di redenzione da un passato doloroso di abbandono e ingiustizie, dalla perdita di identità.

Un romanzo molto interessante, dallo stile notevole, che mette in luce ancora una volta la bravura di questa autrice.

Un romanzo molto interessante, ricchissimo di spunti, forse non tutti ben sviluppati; per dirla con Stephen King, forse era necessaria una più accurata individuazione delle ossa, dei temi centrali, che tendono a disperdersi. Questo non toglie valore alla direzione in cui si muove il lavoro di Helen Oyeyemi, giovane scrittrice britannica: il romanzo indaga le figure stereotipate delle fiabe, in particolare Biancaneve, per mettere in movimento gli stereotipi (di genere, prima di tutto) e vedere cosa succede. Cominciamo dalla matrigna, di cui ci viene raccontata la storia, dalla sua infanzia e adolescenza con un padre violento, l'Acchiappa-Ratti, che sembra godere delle propria crudeltà nel torturare le bestie che cattura e nel picchiare la giovane Boy; a vent'anni la ragazza fugge e senza alcun progetto inizia da capo in una tranquilla cittadina. Conosce un uomo e lo sposa senza esserne innamorata, nella totale incapacità di fare scelte con discernimento; segue un istinto per il quale non trova parole e il suo matrimonio sarà una lunga strada di conoscenza e di sfide, spesso simboleggiate dai doni del marito creatore di gioielli: bracciali a forma di serpente, cavigliere come catene. Boy è una donna forte, è fuggita da ben altre violenze e non si lascia incantare da serpenti e monili che imprigionano; ma è Snow che la ipnotizza, la bellissima bambina che Arthur ha avuto dalla prima moglie, Julia. Una bambina bellissima, adorata da tutti, dalla quale Boy è attratta come da un destino ma che dovrà allontanare alla nascita di Bird, sua figlia 'naturale', per proteggerla da tanta grazia. Tra specchi che non riflettono completamente le immagini, sorellastre che si alleano, matrigne intelligenti e madri perfide, segreti nascosti e identità negate e poi svelate, gli ingredienti ci sono tutti per una narrazione appassionante sull'essere donna, madre, matrigna, moglie, amante, lavoratrice appassionata. Forse non ci siamo ancora del tutto ma auguro ad Helen Yoyemi una lunga carriera: a lei e alle donne che diffidano degli specchi, che si affezionano ai ragni e ai serpenti e che indagano testardamente alla ricerca della propria identità.