domenica 26 febbraio 2017

Fair play di Tove Jansson

Un ricostruzione intelligente e felice di una lunga storia di coppia: Mari e Joanna sono due artiste che vivono in due appartamenti collegati tra di loro in un edificio sul porto di Helsinki. In estate passano le vacanze in una casetta su una piccola isola solitaria. Mari è un'illustratrice, Joanna dipinge, scolpisce il legno fotografa, fa riprese. Il resoconto della loro lunga storia d'amore e di collaborazione è costruito attraverso quadri, brevi riprese di un giorno d'estate, un viaggio, un periodo difficile; Tove Jansson racconta i ggesti, le parole, i momenti quotidiani - senza affondare lo sguardo oltre ciò che potrebbe cogliere una telecamera guidata da una sensibilità raffinata. Ne esce il ritratto di una partita a due giocata con tutta la correttezza, la passione e la serietà di una partita di squadra. Si collabora, ci si sostiene, a volte ci si arrabbia: ma chi ti è di fianco è il tuo compagno, quello che farà la sua parte al momento di segnare il punto.
Le due donne, legatissime e allo stesso tempo indipendenti, come i loro due appartamenti, ci mostrano un modello di amore in cui il rispetto per l'altro è costante: fair play, appunto; un gioco corretto, una vita piena e proficua.  Tove Jansson rielabora attraverso il racconto la sua lunga relazione con la compagna di una vita, regalandoci un inno alla libertà, all'affetto, al lavoro come passione e condivisione.

Le nostre anime di notte di Kent Haruf

Il romanzo di cui tutti parlano in questi giorni, dopo il grandissimo successo dei precedenti lavori pubblicati da NN, è l'ultimo tassello della narrazione di Kent Haruf dedicata alla immaginaria cittadina di Holt, Colorado. Ultimo in modo definitivo, essendo stato scritto  quando lo scrittore già sapeva di non avere molto tempo davanti. La moglie, in Italia nei giorni scorsi per la promozione, ha raccontato di una scrittura veloce, rispetto al lungo lavoro dei romanzi precedenti, dettata dal l'urgenza di concludere in tempo. Sono cose che si sentono, nella scrittura: l'urgenza, l'avere qualcosa da dire, danno alla scrittura una coloritura determinante.
La storia è semplice, pochi i fatti, quasi azzerati i virtuosismi. Addie Moore, una vedova sulla soglia della vecchiaia, propone a Louis Waters, un vicino rimasto solo come lei, di passare insieme le notti.
'
Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me', dice Addie. 'Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare'

Inizia così una relazione che diventa affetto, lontana dai tumulti giovanili (che entrambi hanno comunque attraversato), misurandosi con un tempo che si conosce limitato e allo stesso tempo ancora capace di lasciare respiro e spazio. 'E adesso cerca di non essere precipitoso', dice a sé stesso Louis dopo la proposta di Addie. Addie e Louis sono capaci di avvicinarsi con dolcezza, lentamente, senza badare alle convenzioni e alle chiacchiere del paese. Nello spazio condiviso del letto cominciano un'avventura verso la reciproca conoscenza: attraversano la notte insieme, cercando le parole per raccontarsi.
Una bella storia, un evidente amore che lega il narratore ai suoi personaggi e a quelle piccole cose della vita quotidiana che diventano preziosissime quando non si danno più come scontate. Fare un picnic, andare i campeggio, cucinare per un nipote, occuparsi di un cane, bagnarsi in un fiume, parlare la notte: come se fosse il regno dei cieli, senza troppe fanfare. La voce di Kent Haruf suona così, tranquilla e delicata. Una spiritualità tutta terrena, delicata e soffusa: ogni cosa è illuminata, ma non ci sono bagliori accecanti: un'alba tranquilla, un tramonto sereno. Semplicemente un amore.

La figlia femmina di Anna Giurickovic Dato


Anna Giurickovic Dato, classe 1989, per il suo romanzo d'esordio, ha scelto un tema 'forte' ed estremamente complesso: gli abusi sessuali di un padre sulla figlia, una bambina piccola. Ha ambientato la storia a Rabat, colorando la scenografia di colori, suoni e profumi. Giorgio è un diplomatico che lavora all'ambasciata italiana: la moglie e la piccola Maria si sono trasferite con lui.

La situazione è subito chiarita nel primo capitolo' Questo è il mio papà'; il punto di vista è quello della bambina ed il padre compare sulla scena mentre spiega ad una coppia francese il sacrificio di Abramo nel giorno della festa per l'Eid al-Fitr, che segna la fine del Ramadan.

'È un uomo robusto, alto, bello. Maria si accorge che, quando passa, la gente lo guarda con rispetto tuo, che desidera le sue attenzioni...Maria è assorta in un pensiero. È l'unica figlia di suo padre. Se un giorno lui la legasse e la stendesse su un altare accanto a legna da ardere, lei non si stupirebbe. Pensa che lui lo farebbe fissandola con gli occhi neri e severi, attraverso le ciglia ramate. Lei gli accarezzerebbe un riccio della criniera arancione che ha sempre voglia e timore di toccare. Penserebbe che se lo fa papà è giusto'.
Ed è proprio quello che accade, sera dopo sera: lei è sdraiata, il papà le legge una storia e poi comincia a toccarla; la bambina brucia di vergogna, di confusione, di paura, di amore. Tutto insieme. Il padre non viene fermato dall'improvvisa voce di Dio e il sacrificio si consuma.

Nel secondo capitolo Maria ha tredici anni e vive con la madre a Roma: il padre non è più con loro, la madre ha da poco iniziato a frequentare un uomo, che quel giorno verrà a pranzo per conoscere la ragazzina: è un momento difficile per la madre, che teme la reazione di Maria. La bambina infatti, fin da piccola, ha iniziato a comportarsi in modo strano, alterna dolcezza ad aggressività, ha incubi ricorrenti, giornate di mutismo. La madre racconta il pranzo con il nuovo compagno e la figlia, cornice all'interno della quale vengono narrati gli anni precedenti, alternando presente e passato. Anna Giurickovic Dato  indaga il rapporto madre-figlia, all'interno della tragedia subita da entrambe: una madre che non ha saputo vedere, una figlia che ha sviluppato un rapporto drammatico con le figure degli adulti.
Un ottimo spunto di partenza, un interessante sguardo sulle dinamiche madre-figlia in relazione ad uomo amatissimo capace di distruggerle. L'ambientazione 'esotica' non mi ha convinta del tutto; da una parte colloca la famiglia in un isolamento  che riproduce la profonda distanza dal mondo che separa chi subisce violenze in famiglia dalla comunità, ma in parte collega la violenza, per pura contiguità, ad un mondo che ancor oggi molti considerano 'barbaro', soprattutto in relazione alle donne. Altre cose non funzionano, a partire dalla presentazione ufficiale del romanzo.
'Sensuale come una versione moderna di Lolita, ambiguo come un romanzo di Moravia, La figlia femmina è il duro e sorprendente esordio di Anna Giurickovic Dato.'
Ecco, sensuale. Non lo avrei mai usato per definire una storia di abusi e degli atteggiamenti di una ragazzina segnata dalla violenza di un padre. Ancor peggio usare Lolita, ancora, come se fosse davvero la 'ninfetta' che voleva vedere Humbert Humbert.

L'ospite di Sarah Waters

Da tempo volevo leggere uno dei romanzi 'gotici' di Sarah Waters, scrittrice gallese che per tre volte è stata finalista al Booker Prize. Ho trovato quello che cercavo ne "L'ospite", uscito nel 2009: un'atmosfera alla Henry James, una antica dimora stregata che richiama le famose case di Edgar Alan Poe e Wilkie Collins. Siamo nel Warwickshire, negli anni del dopoguerra: Faraday è un medico di campagna di umili origini, un uomo nella piena maturità che si dedica con impegno al proprio lavoro senza aver ancora acquisito una sicurezza economica del tutto soddisfacente. Quando viene chiamato a Hundreds Hall, la tenuta del XVIII secolo nella quale era entrato solo una volta, ancora bambino, nel periodo in cui la madre lavorava nella casa come donna di servizio; quello che nel ricordo di Faraday era un luogo di meraviglie e splendore, è stato completamente trasformato dalla guerra e dalle difficoltà economiche: la signora Ayres ed i figli Roderick e Caroline vivono in un quasi totale isolamento, la casa è in condizioni disastrose, i conti non tornano ed il dubbio sulle possibilità di mantenere la tenuta tormenta il giovane Roderick, già segnato dalla drammatica esperienza della guerra. Faraday si lega ben presto alla famiglia, sia per il legame affettivo che ha con il luogo nel quale sua madre lavorava sia per un istintivo senso di protezione verso gli affanni di quel triangolo senza aiuti. Ma quella grande casa che sembra voler divorare gli Ayres vanificando ogni loro sforzo per mantenerla in piedi sembra sempre di più animarsi, come se attraverso le sue mura in disfacimento vibrasse una presenza maligna. Faraday fa di tutto per rimanere vicino alla famiglia, cercando di aiutarli anche nel mantenere una visione razionale delle cose senza lasciarsi suggestionare da sensazioni che potrebbero avere una spiegazione razionale.

Non si può svelare altro senza togliere il gusto della suspence, elemento essenziale in questo romanzo di genere, che procede lentissimo ma affascina, spaventa e coinvolge; un bellissimo ritratto di un luogo e di un uomo e una donna legati da sentimenti potenti. Il finale lascia aperte alcune possibilità, o così dicono: a me è sembrato fornisca sufficienti elementi per una chiave di lettura convincente. Infine: un bellissimo ritratto di donna e un intelligente racconto di contrasto tra classi sociali che mi hanno dato grande soddisfazione. Lunga vita ai romanzi di genere, al gotico e alle case infestate.

sabato 11 febbraio 2017

Preghiera per Černobyl’di Svetlana Aleksievič

«Questo libro non parla di Černobyl’ in quanto tale, ma del suo mondo. Proprio di ciò che conosciamo meno. O quasi per niente. A interessarmi non era l’avvenimento in sé, vale a dire cosa era successo e per colpa di chi, bensì le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toccato con mano l’ignoto. Il mistero. Černobyl’ è un mistero che dobbiamo ancora risolvere... Questa è la ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti. Per tre anni ho viaggiato e fatto domande a persone di professioni, destini, generazioni e temperamenti diversi. Credenti e atei. Contadini e intellettuali. Černobyl’ è il principale contenuto del loro mondo. Esso ha avvelenato ogni cosa che hanno dentro, e anche attorno, e non solo l’acqua e la terra. Tutto il loro tempo. Questi uomini e queste donne sono stati i primi a vedere ciò che noi possiamo soltanto supporre... Più di una volta ho avuto l’impressione che in realtà io stessi annotando il futuro».

Svetlana Aleksievič ci porta a Černobyl, nei giorni e nei mesi immediatamente successivi al guasto della centrale nucleare situata in territorio russo, ai confini tra Bielorussia ed Ucraina. Le voci che ha raccolto nei suoi tre anni di lavoro riescono a farci vivere quei giorni in cui buona parte del nostro mondo rischiò di scomparire. Per gli uomini e le donne che lavoravano alla centrale, o vivevano nella zona, o furono mandati sul posto per arginare il disastro, quei giorni non sono mai finiti: chi di loro è sopravvissuto non è mai più uscito da quell'incubo. Sono uomini e donne e bambini di Černobyl, questa per sempre la loro identità. La portano nel DNA , marchio invisibile ma indelebile; la portano nei pensieri, nei sogni, nei rapporti con gli altri. Hanno perso compagni, figli, amici; hanno visto la loro vita azzerarsi, in poche ore: niente più casa, né un paese a cui tornare un giorno, né lavoro, né futuro: fare figli? Non è il caso. Innamorarsi? Chi potrebbe avvicinarsi? Portatori di morte, per sempre, chiusi in un limbo in cui ci si capisce solo tra adepti. Parlare con gli altri? È perché? Come potrebbero mai capire? È oramai, dopotutto, cosa importa?
Un mare di voci che ci raccontano quei giorni in cui tutto perse senso: come si può trovare un senso a ciò che non puoi percepire? Il mondo sembrava lo stesso di sempre, eppure qualcuno diceva loro di non raccogliere le patate, né la frutta, di non mangiare la carne degli animali: e cosa dovevano mangiare, se non avevano altro? E così mangiavano, qualunque cosa, tanto si era sparsa la voce che la vodka fosse perfetta per combattere le radiazioni. Arrivava qualcuno ed ordinava loro di salire su un pullman, di lasciare tutto e partire. Ma come si poteva partire lasciando la casa e l'orto e le bestie? Per andare dove? Arrivava qualcuno e ti diceva che dovevi andare alla centrale, a dare una mano, c'era da tenere sotto controllo la situazione per evitare ulteriori problemi che avrebbero potuto distruggere buona parte dell'Europa. Moltissimi andarono: non potevano perdere il lavoro, non capivano davvero il pericolo, non volevano tirarsi indietro di fronte alla richiesta dello Stato: se si doveva fare, andava fatto. Andarono con mascherine di garza e poco altro, spalarono a mani nude, volarono in elicottero sopra il reattore. Sotto di loro giocavano i bambini e avrebbero voluto avvertirli, ma come fare? Intanto qualcuno approfittava, come sempre: entrava nelle case abbandonate e si portava via tutto; buona parte di quello che riuscirono a prendere venne rivenduto, e chissà dove ha girato. Qualcun altro rientrava di nascosto a casa, attraverso il bosco, per prendere qualcosa che non poteva abbandonare o per rimanere a morire lì, piuttosto che perdersi altrove. E tutto intorno la natura, alberi, frutta, uccelli, i cani, i gatti, i cavalli, le mucche: una sensazione di vicinanza, come mai prima.

'Prima non consideravamo nemmeno questo mondo che è attorno a noi, per noi era come il cielo, come l'aria, come se qualcuno ce l'avesse dato una volta per tutte, e non dipendesse da noi. Tanto era per sempre'.

Ma il sempre, come molte altre parole, non è più per la terra: il sempre va bene per le radiazioni, che hanno tempi di scomparsa da far girare la testa. E allora, tanto vale lasciar perdere. Se la realtà non è più comprensibile, tanto vale buttare giù un po' di vodka e raccontarsi un'altra barzelletta. Ne sono nate moltissime, sull'argomento; insieme ai miti sugli animali a tre teste sembravano essere le uniche forme di racconto possibili. Oppure c'era il silenzio.
O la preghiera.

martedì 7 febbraio 2017

Una cosa che volevo dirti da un po' di Alice Munro

L'ultima raccolta di racconti di Alice Munro pubblicata in Italia nel 2016, 'Una cosa che volevo dirti da un po' ' corrisponde alla seconda raccolta dell'autrice, pubblicata nel 1974.
Oggi Alice Munro è giustamente molto conosciuta e tanto è stato detto e scritto sui suoi splendidi racconti e sulla qualità del suo stile: questa raccolta è una conferma, a posteriori, che lo sguardo era già allora quello che conosciamo e che la Munro possedeva già tutti gli strumenti per raccontarci il mondo illuminato da quella luce obliqua e a tratti diretta che abbiamo imparato ad amare.
I personaggi lo riconosciamo, pur nella loro individualità precisa e concreta: sono soprattutto donne, anziane sedute sulla veranda a guardare la nipote, ragazzine alle prese con il primo innamoramento, amanti di uomini sposati, donne appena separate, con bambini e un nuovo compagno, donne che scrivono tra la spesa ed i figli, mamme svagate o determinate; intorno a loro uomini dolci, affascinanti, freddi, inaffidabili, intelligenti. I rapporti tra di loro, sempre in primo piano, tra appartamenti con guasti alle tubature, baracche poverissime, case di campagna con lavatrice e asciugatrice, una periferia nella quale si parla della città come un mondo vicino e frequentato ma anche irraggiungibile.

Gli incipit, come sempre, ci buttano dentro ad un discorso già iniziato, ad un frammento di conversazione, ad un pensiero che prosegue. In Materiali entriamo direttamente nelle riflessioni della voce narrante, senza ancora sapere nulla del suo mondo.

“Non riesco a star dietro agli scritti di Hugo. Certe volte, in biblioteca, vedo il suo nome sulla copertina di una rivista letteraria di quelle che non apro – sono ormai dodici anni che non apro una rivista letteraria, grazie a Dio.”

Quello che abbiamo davanti non è un mondo, ma una mente: la mente di una donna che segue un suo filo invisibile e si racconta, ci racconta, una storia senza seguire un ordine cronologico, passando dall'oggi al passato senza preavviso, per poi tornare a un momento più vicino, sempre nel passato e poi all'oggi, di nuovo. Ogni passaggio è una sorpresa, ogni deviazione lascia qualcosa di non detto, un minuscolo enigma che ci lascia in sospeso.

Il racconto, in questo caso, prosegue con velocità e ci informa dei fatti: Hugo è stato il primo marito della protagonista, hanno una figlia che lui ha completamente abbandonato, troppo preso dalla carriera come scrittore, dai due successivi matrimoni e dai sei figli che ne sono nati.
Comprendiamo così meglio il disprezzo con cui X aveva proseguito la sua riflessione sull'attività dell'ex-marito, spesso invitato a tenere conferenze.

“Allora mi chiedo, ma la gente ci andrà davvero, la gente che potrebbe andare in piscina, o a bere qualcosa, o a fare una passeggiata, si trascinerà davvero fino al campus per cercare l’aula giusta e sedersi in fila ad ascoltare quei palloni gonfiati litigiosi? Uomini pieni di sé, trasandati, supponenti, è così che li vedo, viziati dalla carriera accademica, da quella letteraria, e dalle donne. La gente va a sentirli dire che il tale scrittore non bisogna più leggerlo, e il tal altro invece sì; a sentirli liquidare uno e incensare l’altro, e bisticciare e ridacchiare e provocare. Dico gente, ma intendo donne in realtà, signore mature, come me, vigili e tremebonde, che sperano di formulare domande intelligenti e di non rendersi ridicole; ragazze dai capelli morbidi, grondanti adorazione e smaniose di incrociare lo sguardo di uno degli uomini sul palco. Le ragazze, e anche le donne, si innamorano di uomini così, li immaginano depositari di un certo potere.”

Nel frattempo la narratrice ci ha parlato del suo attuale marito e del legame diversissimo che ha con questo tranquillo ingegnere rumeno rispetto al litigioso e appassionato primo matrimonio.
Il punto centrale del racconto è un fatto avvenuto quando lei e Hugo, appena sposati, vivevano in un appartamentino in affitto: sotto di loro viveva una donna, che ora la donna ritrova in un racconto di Hugo, in una raccolta appena pubblicata. La meraviglia di trovare quel loro ricordo comune trasformato in personaggio la porta a rivedere il passato alla luce di questa scoperta: ripensa all'episodio che ha determinato la rottura del suo matrimonio e riconosce a se stessa gli errori fatti.
La chiusura ritorna al presente, al secondo marito - e all'improvviso la contrapposizione tra i due si trasforma in somiglianza.

“Al tempo stesso, a tavola, guardando mio marito Gabriel, mi sono resa conto che lui e Hugo non sono poi così diversi. Tutti e due sono riusciti a concludere qualcosa. Entrambi hanno deciso come reagire a tutto ciò che incontrano in questo mondo, che atteggiamento assumere, come ignorare o utilizzare gli eventi. In un loro modo provvisorio e limitato, tutti e due hanno autorevolezza. Non sono alla mercé. O pensano di non esserlo. Non li posso biasimare, se cercano di sistemare le cose a modo loro.”

Ma poco dopo: 'Li biasimo, invece. Li invidio e li disprezzo'

Ho provato a seguire uno dei racconti per vedere meglio come funzionano e mi sembra di aver capito ancora una volta che la Munro scrive storie in cui quello che è in primo piano non sono i fatti in sé stessi, ma i fatti come li ricordiamo o dimentichiamo, come li ripensiamo rispetto al passare del tempo e alle nuove esperienze. Sono racconti su cosa ci raccontiamo, come lo raccontiamo e cosa ci nascondiamo, o dimentichiamo. Su come funziona la nostra mente, nel suo incessante lavoro di interpretazione del 'reale' e su quanto è instabile, parziale, soggettiva nel suo lavoro.
E riesce a farlo raccontando anche i fatti: le cose sono vive, concrete, visibili; il campo d'atterraggio dell'aereo, la barca rovesciata nel fiume, la ragazza dal braccio monco, il giovane hippie che sogna di camminare sulle acque. Ma il punto rimaniamo noi, il nostro girare incessante intorno ad alcune cose, alcune persone, cercando di afferrare qualcosa che non si lascia prendere ma neppure ci abbandona.





giovedì 2 febbraio 2017

Il nascondiglio di Cristophe Boltanski

Cristophe Boltanski, reporter francese, ha scritto un bellissimo romanzo sulla storia della sua famiglia paterna: nel 2015 ha vinto il Prix Fémina ed è appena stato pubblicato in Italia da Sellerio.
È una famiglia di uomini e donne brillanti conosciuti nell'élite culturale della capitale francese, ma non solo: Christian Boltanski, zio dello scrittore, è un'artista di fama internazionale, lo zio Jean Elie è stato un linguista, il padre Luc Etienne un sociologo, il nonno Étienne un medico, la nonna Myriam è stata scrittrice, la zia Anne scrittrice e fotografa.

Cristophe ricostruisce il percorso della famiglia mettendo al centro della struttura la casa di Rue de Granelle dove ancora vivono alcuni dei familiari; è il luogo in cui  si svolse quasi completamente la vita di un nucleo talmente coeso e compatto da sembrare a tratti un unico essere vivente a più teste e a molte gambe e braccia che si sostengono a vicenda.
Si inizia dal cortile, dalla Cinquecento parcheggiata e dagli assurdi viaggi tutti stipati in quello spazio stretto, per portare il nonno Étienne al lavoro o per fare un viaggio fino a Odessa. A partire dal cortile e dall'auto si scopre una famiglia che si muove in gruppo, come un unico corpo, tutto intorno alla Mère-Grand Myriam, che cammina a fatica causa poliomielite ma guida a tutta velocità quasi per ribellarsi all'immobilismo al quale è costretta.
Sembra lei il motore immobile attorno al quale gli altri cercano la loro posizione, adattandosi a farle da appoggio o passeggero, facendosi portare e supportandola a seconda del caso.
Ma procedendo di stanza in stanza, la casa assume sempre più il ruolo di protagonista, fino ad arrivare al suo centro, al nucleo nascosto, al grembo che ha generato una storia, una mitologia, una malattia, tanta creatività. È il rifugio, la 'cache' (come nel titolo originale), il nascondiglio nel quale il nonno Étienne cercava raccoglimento e solitudine nella sua tendenza al ritiro; ma ancora più nascosto, invisibile a tutti, c'è il vero cuore vuoto, la vera 'cache' della narrazione: un ambiente di pochi metri quadrati, nel quale Étienne rimase nascosto quasi due anni, quando in Francia vennero applicate le leggi razziali più estreme. Una reclusione dalla quale non si riprese mai del tutto e che si saldò con l'immobilismo vitalissimo della moglie: da quel nascondiglio emerse una famiglia consolidata nella sua diffidenza, nella sua paura verso il mondo.


"Avevamo paura. Di tutto, di niente, degli altri, di noi stessi. Del cibo avariato. Delle uova marce. Delle folle e dei loro pregiudizi, dei loro odî, delle loro bramosie. Delle malattie e dei mezzi impiegati per contrastarle. Della compressa ingerita dopo un’attenta lettura del dizionario Vidal. Dell’asfissia con il gas di città. Degli annegamenti in mare. Di una valanga in montagna. Delle macchine. Degli incidenti. Della gente in divisa. Di chiunque fosse investito di un’autorità, dunque del potere di nuocere. Dei moduli ufficiali. Dei ricorsi amministrativi. Della piccola come della grande storia. Delle gioie ingannevoli. Del bianco che presuppone il nero. Delle persone oneste che, a seconda delle circostanze, possono trasformarsi in criminali. Dei francesi che si definiscono buoni, in contrapposizione a coloro che giudicano cattivi. Dei vicini indiscreti. Della reversibilità degli uomini e della vita. Del peggio, perché è assicurato. Questa apprensione la mia famiglia me l’ha trasmessa molto presto, quasi alla nascita."

La casa e la madre coincidono nella patologia del cordone ombelicale mai reciso, nella camera in cui si dorme tutti insieme, perché solo insieme si può affrontare la notte, le tenebre, la separazione del sonno. Ma il percorso prosegue, muovendosi verso l'alto e contemporaneamente verso il futuro: la soffitta nella quale Cristopher elabora tutta la sofferenza della famiglia impastando palline di terra, raccogliendo oggetti-ricordo, iniziando a lavorare sul tema della biografia e della memoria come costruzione privatissima è universale, allo stesso tempo. Perché è storia di tutti, il voler fermare la memoria ed il sapere che niente rimane: come i battiti di una moltitudine di cuori registrati e archiviati su un'isola giapponese dall'artista, che rimangono come traccia di vite che non ci sono più, non sono più in quel luogo, forse non pulsano più.

In soffitta, come un innesto, il padre Luc aveva costruito al giovane Cristophe una casetta: un nido, ancora una volta un rifugio, dentro una casa che è tutta modellata sulla chiusura; ma lassù il ragazzo può immaginare una fuga sui tetti, protetto dai fantasmi che lo zio sciamano controlla sotto di lui. Ed entrambi, insieme a tutti gli altri, trovano dai loro nascondigli la voglia e la spinta per vivere ed uscire nel mondo. Senza mai dimenticare il male, che è sempre in agguato. E ricominciando ancora una volta a raccontare, perché la potenza della narrazione e del lavoro sulla propria storia sono l'unica strada per nascere ancora una volta, venire al mondo con le parole e la creazione e parlare dei pochi, per parlare di tutti. Ostinandosi a 'dar forma a una materia' che per sua natura si sfalda, nel bene e nel male.