mercoledì 31 agosto 2016

Regressione

'In effetti, quelle nuvole in cielo che come grandi mammelle gonfie di latte promettono infinito piacere alla bocca pronta a succhiare, non sono il sogno dei sogni? Non sarebbe bello dormire, per sempre dormire, per sempre immersi nella promessa del latte o della manna dal cielo?'

La tentazione della regressione in Vivere nella tempesta di Nadia Fusini.

A Calais di Emmanuel Carrère

À Calais è un breve reportage commissionato dal trimestrale XXI per la primavera di quest'anno. Carrère ha scelto di raccontare il luogo ed i suoi abitanti senza addentrarsi nella Giungla, un 'incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili'. Ha deciso di rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti, che dicono 'non ne possiamo più di parlare solo di questo, per favore non ne parliamo' con la stanchezza si chi convive da anni con un malato cronico e vorrebbe per un attimo distrarsi, vedere se stesso e la propria vita come 'altro' da quel dolore, da quel problema, da quel legame che uccide, ma che poi mentre parla d'altro continua ad ascoltare i rumori che provengono dalla stanza di là, in allarme e in apprensione, così che il malato è sempre presente, anche quando non lo si nomina: perché siamo legati a doppio filo, noi e lui, e la nostra vita è compenetrata dalla sua. Così gli abitanti di Calais, anche quando vorrebbero parlare di altro, non riescono a farlo: ogni cosa che li circonda è legata alla Giungla, il rumore degli elicotteri ha sostituito quello delle macchine dei merletti, le discussioni pro e contro migranti sono diventate il centro di ogni discorso.
' Pro migranti nel vero senso della parola non ce ne sono, dato che nessuno è favorevole ad avere alle porte di una città di settantamila abitanti una popolazione di settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo' è che passano le giornate te tanto di eludere la sorveglianza per salire su un camion e provare la sorte: difficilissimo passare l'Eurotunnel, i controlli sono oramai sofisticati e includono rilevatori del battito cardiaco: in un reportage televisivo hanno raccontato di quelli che prendono medicinali e si infilano nei freezer, consapevoli dell'altissima probabilità di morire.
Le risorse richieste per il contenimento della Giungla sono altissime, includono reparti speciali e controlli capillari, pagati dai francesi secondo l'accordo con il Regno Unito, che ci ha messo il denaro per i muri.
Poche pagine per un veloce sguardo a Calais e alle nostre frontiere, tenendo a mente il graffito di Bansky che rappresenta Steve Jobs, un versetto della Bibbia che ricorda di accogliere lo straniero e la diffidenza verso questo genere di operazioni: ma cosa vuoi, avvoltoio? Te ne vieni qui per quindici giorni e pensi di aver capito qualcosa, di come si vive?

Aggiunge forse poco a quel poco che sappiamo, ma è comunque importante come ogni discorso che tenta di rappresentare e rendere visibile il cuore di tenebra che abita negli interstizi del nostro mondo e che, insieme ai migranti del mare, accompagna ogni nostro giorno di europei, anche quando non ne parliamo: da qualche parte, dentro di noi, lo sappiamo; e parlarne, almeno, è un primo passo.

Cronache da Lampedusa di Loredana Lipperini

Non è un romanzo, non è stato stampato: sono cinque 'pezzi' (non facili, se vogliamo giocare con il facile accostamento al film) che Loredana Lipperini, giornalista e conduttrice radiofonica di Farehneit, ha dedicato sul suo blog a Lampedusa, in occasione del primo anno di gemellaggio con il festival letterario di Ventotene. Pezzi di giornalismo di alto livello, toccano i nodi cruciali di quello che oggi 'significa' l'hotspot dell'isola, luogo ai margini dell'Europa e nello stesso tempo centro dei movimenti migratori che puntano al vecchio continente. Si avvicina con cautela, Loredana Lipperini, con tutta la consapevolezza di essere estranea, in un qualche modo turista, seppure piena di interesse onesto e partecipe. Ci racconta dell'isola, della biblioteca, dei pescatori fotografati dai giornali, delle associazioni che lavorano per aiutare, denunciare, ricordare; del cimitero, del valore dei nomi, della contraddizione feroce che ogni racconto su ciò che umano non è, porta con sè: raccontare e far capire ciò che non dovrebbe esistere, pensando che raccontare è necessario ma che quello che davvero si vorrebbe è fare in modo che non esista.
La 'restituzione' di Loredana Lipperini, è una delle forme più alte di amore e rispetto per la narrazione e per la lettura come tramite per meglio vedere il mondo: il richiamo al celebre racconto di Carver, Con tutta quell'acqua intorno a casa, è perfetto per illuminare la nostra condizione oggi, con tutta quell'acqua intorno, con tutti quei corpi nell'acqua, e noi che andiamo a pescare, senza l'adrenalina di Costantino Baratti, che torna al lavoro dopo aver salvato tutte le vite che poteva salvare. Da leggere, perché è sono davvero belli e perché l'amore per la lettura, se non diventa tramite per arrivare al mondo, forse non è poi una gran cosa. Il pane e le rose, senza dimenticare né l'uno né l'altro, per nessuno.

Lampedusa di Maylis de Kerangal



' Dormono tutti. Fumerei volentieri una sigaretta. La radio dipana a basso volume un filo sonoro che mormora nello spazio, gira e ruota su se stesso come il nastro di un ginnasta. Non reagisco subito a quella voce che, in apertura del giornale radio dopo i dodici rintocchi della mezzanotte, farfuglia in tono di circostanza la sinistra tragedia di questa mattina, percepisco solo un'accelerazione, qualcosa precipita, qualcosa di febbrile. Poi il nome si deposita: Lampedusa'

Breve testo commissionato all'autrice, così come A Calais di Carrère: iniziative francesi a mio parere meritevoli, se aiutano a trovare le parole per il nostro presente. Le rotte dei migranti verso le nostre coste è ovviamente un tema centrale dei nostri tempi, condiziona e determina scelte importanti (lo abbiamo visto appena ieri con i risultati del referendum nel Regno Unito), ed intorno ad esso si muovono pensieri, discorsi, interessi onesti o indecenti: c'è poco da fare, i flussi migratori sono una cosa potente, sono legati ad interessi economici e nello stesso tempo hanno un forte impatto emotivo, evocano spettri (i barbari! il crollo dell'impero romano!), suscitano sdegno, dolore e rabbia e paura; il punto di vista che prevale, è ovviamente il nostro (quelli che stanno a casa loro, nel loro piccolo, piccolissimo o enorme privilegio). Ogni voce che racconta quello che accade, cercando un discorso profondo, è indispensabile, a mio parere: non vorremo essere in futuro quelli che non sapevano, dove andassero quei treni.
Maylis de Kerangal è una bravissima scrittrice (Riparare i viventi è un romanzo davvero bello, e approfitto per consigliarlo ancora una volta): costruisce un percorso narrativo sulla notte del 3 ottobre 2013, quando a due km da Lampedusa affondò il barcone sul quale era scoppiato un incendio, causando la morte di almeno 300 persone. È la notte di Costantino Baratti, di cui ci ha parlato anche in questi giorni Loredana Lipperini.
Una donna, nel silenzio della notte, sola in cucina, apprende dalla radio quello che è accaduto e la sua mente parte per un viaggio intorno all'isola di Lampedusa, a quello che evoca quel nome per lei, donna francese, colta, innamorata dei toponimi e del rapporto tra i nomi e il mondo. A partire da quel Tomasi di Lampedusa, reso cinema da Visconti, che un secolo fa raccontò il 'naufragio' di un mondo, Maylis de Kerandal alla fine della notte, dopo aver evocato il principe di Salina, Le vie dei canti di Chatwin, i viaggi a Stroboli, tutto ciò che l'idea di isola  porta con sé, deve concludere che qualcosa è cambiato, per sempre e quel nome di leggenda e di cinema (oh, il ballo di Tancredi ed Angelica!) avrà per sempre un'eco diversa.

'... ma quella mattina, la mattina del 3 ottobre 2013, (quel nome) si è rivoltato come un guanto, Lampedusa concentra ora in sé solo la vergogna e la ribellione, il dolore, segnala ormai uno stato del mondo, tutta un'altra storia'.

È tutto questo, ancora una volta, riguarda noi che guardiamo da riva, piedi a terra e vestiti asciutti: per tutte quelle persone, quelle donne e ragazzi e uomini e bambine e bambini e neonati e madri, padri, sorelle, zie, fratelli, amici, il nome Lampedusa significa rinascita, approdo, salvezza, finalmente, e adesso?, infine, la fine, il silenzio, la croce senza nome, il nome finalmente trovato da qualche anima caparbia e pietosa, il nome e una foto accanto alla croce, per sempre, e così non sia.

La vita felice di Elena Varvello

' Nell'agosto del 1978, l'estate in cui incontrai Anna Trabuio, mio padre portò nei boschi una ragazza.
Si era fermato col furgone sul ciglio della strada, prima del tramonto, le aveva chiesto dove stesse andando, le aveva detto di salire.
Lei accettò il passaggio perché lo conosceva.
Lo videro viaggiare a fari spenti in direzione del paese, ma poi lasciò la strada, prese un sentiero ripido è sconnesso e la costrinse a scendere, la trascinò con sé.'

Inizia così, La vita felice di Elena Varvello, con un'anticipazione che mette in moto l'attesa, la tensione che ci spinge a voler capire cosa è successo e perché. Il meccanismo è in parte quello di una crime story, ma lo sguardo che indaga e ricorda è quello di Elia, il figlio di quell'Ettore Furenti che quell'estate trascina nei boschi una ragazza, segnando così un taglio netto tra quello che era la vita prima e quello che sarà; e nello stesso tempo, avventurandosi nel buio dei boschi porterà alla luce e lascerà deflagrare il malessere che da tempo lo accompagna.
Con una narrazione pulitissima, fatti di dialoghi, luoghi, molti silenzi e densissime reticenze, il romanzo ci porta nel cuore di una famiglia ferita, nella quale l'amore saldissimo e luminoso della madre di Elia per il marito tenta in ogni modo di arginare, sostenere, accompagnare un uomo nelle sue oscurità, senza riuscire a raddoppiarsi per accompagnare altrettanto il figlio; fa tutto quello che può, ma naturalmente non basta.
È un romanzo su una formazione dolorosa, sull'amore e sulle triangolazioni inevitabili: Anna è per Elia la forma del desiderio, ma anche madre, sorella; allo stesso tempo permette al ragazzo di calarsi nei 'panni' del padre e di avvicinarsi ad un doppio della madre); Elena Vivarello racconta con voce controllata e intensa il dolore di crescere quando 'la famiglia' è una costellazione di luci che affiorano sul buio profondo, una cielo ferito da tempeste che si affacciano su infiniti buchi neri; di come si può crescere senza odiare, nonostante tutto, il proprio passato ed i propri genitori, facendo i conti con le 'assenze' e le colpe, per diventare Telemaco, come direbbe Recalcati.
Diventare grandi vuole dire anche questo: vederli, questi genitori, come persone, con tutte le loro ricchezze e mancanze. Perdonarli, lasciarli andare; proprio per questo, credo, la voce di Elia suona così  controllata e intensa: è intrisa di tutto l'amore e di tutto il dolore di ogni figlio che abbandona i genitori al loro destino, dopo tutto il male e il bene che ci sono stati.

'Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce  le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.'
Questa frase di Alice Munro ha accompagnato la scrittura di Elena Varvello: uscirne vivi, non casualmente, si intitola la raccolta da cui è tratta.
E per uscirne vivi, una direzione è lasciar perdere ciò che pensavamo di meritare, ciò che pensavamo ci fosse dovuto, quello che credevamo fosse nostro diritto, quando ancora eravamo figli.
' È questo che deve tenerti legato alle persone, Elia. Il bene. Il resto è solo quello che crediamo di meritare, e non vale granché, la maggior parte delle volte.'

Quello che crediamo di meritare, un pensiero da lasciar perdere: a questo non pensarci, Elia, vai avanti, avrai una vita felice.

La triomphante di Teresa Cremisi

Si respira, leggendo La Triomphante: l'odore del mare, la libertà dai recinti, il trionfo e l'abbandono; una bella lettura per tempi di sguardi a terra e porte chiuse a doppia mandata.

' Ho un'immaginazione portuale.
Sono tante le cose che mi fanno battere il cuore -foto ingiallite, poesie, canzoni, scene di film- è quasi tutte mostrano o raccontano di banchine, navi, dock, balle di cotone, container, gru, uccelli marini'

Si apre così l' autobiografia romanzata di Teresa Cremisi, primo romanzo della donna che ha guidato la maison Gallimard e le edizioni Flammarion, nume tutelare di Michel Houellebecq e Yasmina Khadra.
Il porto, luogo di apertura verso il mare e l'altrove e al tempo stesso rifugio per chi si trova in balia di onde e tempeste, è dichiaratamente una prima chiave di lettura per raccontare una vita dalle mille radici, sempre proiettata in avanti, verso l'avventura successiva, sempre aperta al possibile, agli orizzonti sconfinati, ai territori internazionali del mare, dove il concetto di patria è fluttuante; a cominciare dal porto 'sepolto' di inesauribile segreti, Alessandria d'Egitto, punto cardine della Storia dove la  protagonista viene alla luce, da un padre di passaporto italiano e origine ebraiche, commerciante ateo che parla francese, italiano, inglese ed arabo e da una madre scultrice, che parla francese, greco e italiano, dal passaporto inglese e con una grande resistenza nella guida dei fuoristrada. Una vita da ricchi privilegiati, una totale noncuranza per qualsiasi idea di patria, identità, religione; il francese come lingua più usata, come patria immaginaria. Nel 1956, la crisi politica, la nazionalizzazione del canale di Suez, la fuga in Europa, a Roma e poi a Milano.
I genitori, capaci di vivere nelle capanne del Delta del Nilo o di imbarcarsi per vacanze di mesi verso Antibes, si perdono nella città produttiva ed efficiente e vanno alla deriva nel letto del loro appartamento, davanti alla tv: la madre cade in una lunga depressione e la giovane protagonista cerca un lavoro nel mondo dell'editoria. Davvero toccante il racconto delle difficoltà ad adattarsi ad un nuovo mondo, parole che fanno riflettere su quanto possa essere faticoso il processo di ridefinizione che comporta ogni sradicamento.
' Come vuole una regola infallibile, la più valida risultò essere anche la più fragile. Mia madre, che sarebbe stata capace di guidare una jeep tra le montagne dell'Afghanistan, non era in grado di fare la spesa'.
Per la protagonista inizia una vita di impegno e di affermazione, di successi e di fatiche, una nuova vita dove la protagonista si trova bene, al contrario dei genitori: anche se deve rinascere, attraverso una nuova lingua.
' Lo stravolgimento era totale. Stavo cambiando lingua e questo comportava una rivoluzione interiore. Ci sono interi trattati di neuropsichiatria al riguardo. La nostra stessa voce suona diversa, diciamo cose che non avremmo detto, pensiamo in modo un po' diverso, non reagiamo alla stessa maniera. La lingua che usiamo condiziona il nostro corpo e i nostri sogni. Un'altra cultura si fa strada in noi attraverso canali insospettabili, improvvisamente il mistero di una canzone, di una battuta diventa accessibile, capiamo i sottintesi, possiamo scherzare. Quando parliamo per tutto il giorno una nuova lingua può accadere che la nostra vita prenda un'altra direzione e che il nostro carattere si modifichi'.
La lingua che in seguito sceglierà come propria sarà il francese parlato dai genitori: ricordando Canetti, che decise per il tedesco, Teresa Cremisi torna a toccare il tema dell'identità e della patria non come dato di natura, ma come scelta, almeno in parte.
Bellissima anche la parte finale del romanzo (a questo punto davvero romanzo, direi, che si proietta in un futuro forse sognato e desiderato dall'autrice): conclusa la sua parabola lavorativa la protagonista si ritira ad Atrani, dove vive sul mare e nel mare, nuotando, contemplando e dedicandosi alla sua grande passione spesso tenuta segreta: le navi, le battaglie sul mare, i dipinti che le hanno fermate nel tempo: La Triomphante, una corvetta del XIX secolo, la affascina particolarmente.
' In fin dei conti è stato quel nome a sedurmi...avrei desiderato più di tutto imbarcarmi su una nave francese che mi garantisse futuri trionfi. Per quanto potesse essere furibondo il mare, angosciosa la solitudine, irti di pericolo i porti, deludenti i ritorni a Chebourg, nulla di tutto questo avrebbe avuto importanza, dal momento che il trionfo era scritto'.

La vitalità, il trionfo, l'affermazione: una seconda linea di lettura, altrettanto interessante; così come gli autori che accompagnano la protagonista nel suo viaggio fino al porto di Atrani: da Lawrence d'Arabia a Stendhal, da Conrad a Proust; fino a Kavafis, che chiude il cerchio del tempo e dei luoghi.

' Mezzanotte e mezza. Come è passata l'ora.
Mezzanotte e mezza. Come sono passati gli anni'

Il medico di corte di Per Olov Enquisit

Bellissimo e struggente, 'Il medico di corte' (1999) di Per Olov Enquisit, scrittore svedese pubblicato in Italia da Iperborea. Johann Friedrich Struensee, giovane medico tedesco di idee illuministe, viene convinto ad abbandonare il suo impegnativo ed appassionato lavoro per accettare l'incarico di medico di corte del re di Danimarca Cristiano VII, diciottenne sull'orlo della follia. Struensee accetta di compiere quello che ritiene suo dovere, inserirsi cioè in uno spiraglio della storia per cambiare il mondo: dal 1768 al 1772 la Danimarca, per mano del medico, otterrà le leggi più avanzate del mondo, anticipando la rivoluzione francese: seicentotrentadue decreti, tra i quali la libertà di stampa e di culto. La 'rivoluzione danese' mette in moto gli intrighi di una Corte che non può tollerare un simile stravolgimento: la sua relazione con la giovane regina inglese Caroline Mathilde, dalla quale ha una figlia, diventa il punto debole al quale il vecchio potere si aggancia per fermare Struensee.
La realtà ha una fantasia infinita; quando uno scrittore sa raccontare vicende storiche illuminando i documenti del calore che nasce dal leggere l'animo degli attori del dramma ci permette davvero di viaggiare nel tempo. Sono personaggi indimenticabili: Cristiano il folle, Struensee il taciturno, Caroline che crea se stessa attraverso l'amore; ma
anche la prostituta Caterine-Polacchina, la regina madre, il paziente precettore Reverdil e infine Guldberg, l'uomo che nessuno nota e che lavora nell'ombra. Tutti prigionieri del loro ruolo, tutti più o meno sul confine tra finzione e follia, tutti Amleto nel suo castello: il Grande Gioco del potere è difficilissimo ed ignorarlo porta alla morte. Dolorosissimo il destino di tutti loro, come fossero tutti parte di quel fiume di gente, del popolo, che si muove spinto da impulsi incontrollati, fiutando l'aria ma senza saperla interpretare: il popolo, per il quale Struensee lavorava alla sua scrivania, sarà il primo a decretarne la fine; ma la folla, senza capirlo, si farà silenziosa quando la fine arriva; un'intuizione, espressa solo con il silenzio, di qualcosa che doveva accadere ma che fa male, un dolore profondo.
Il potere, la forza liberatoria dell'amore profondo, la responsabilità ed il suo peso, la libertà, la storia ed i suoi movimenti ingovernabili, le donne e la loro difficile emancipazione: c'è tutto, in questo romanzo.  

Il resto di niente di Enzo Striano

'Il resto di niente', pubblicato nel 1986 dopo una difficile vicenda editoriale, è un romanzo storico incentrato sulla figura di Eleonora de Fonseca Pimentel, nobile portoghese cresciuta a Roma e vissuta a Napoli: attraverso la sua biografia viene narrato il periodo in cui, sull'onda della Rivoluzione Francese, alcuni illuministi italiani proclamarono la Repubblica Partenopea, fragilissima e destinata in breve al fallimento.
La scelta del romanzo, preferito ad un testo puramente storiografico, permette a Striano punti di vista plurimi: la voce dei 'lazzari', il popolo napoletano di grado sociale più basso, non avrebbe trovato posto in un lavoro di pura documentazione.
La vita di Eleonora viene ricostruita puntigliosamente, a partire dall'infanzia romana fino al trasferimento a Napoli, dove rimarrà fino alla morte; quella Napoli che lo sguardo di Eleonora così descrive.
' Vi alitavano savia comprensione, indifferenza gentile, meglio ancora supremo senso della vita, in equilibrio tra pietà e disincanto. Tutto (dal grande e nobile, al futile e meschino) acquistava preziosità inestimabile ma, al tempo stesso, non valeva nulla.'
Che tutto si riduca a niente, nada de nada, il resto di niente, lo ricorda, nei mesi di grande caos  della rivoluzione, la domestica Graziella, che ne trae la sua morale di accettazione dello status quo:
' Ognuno nasce co' la parte sua. Nasce prevete e è prevete, nasce zoccola e è zoccola. E po': prievete, zoccole, signure, tutte quante morimmo'.

Il romanzo di Striano nasce da un forte impegno politico e letterario, dalla volontà di ricercare le radici della scomparsa della 'sconfitta' di Napoli e del malessere della contemporaneità: attraverso lo sguardo di Eleonora e dell'amico Sanges, adottando un punto di vista interno alla storia, Striano racconta di quei pochi anni in cui si formò una intellighenzia cittadina attiva che credette di poter rovesciare il regime borbonico senza però riuscire a coinvolgere la spinta anarchica e incontrollabile del popolo che voleva 'liberare'.
Le pagine più coinvolgenti, a mio parere, sono quelle che raccontano le giornate della repubblica partenopea, quando l'utopia deve fare i conti con la realtà e la distanza tra lo slancio teorico e i comportamenti, spesso dettati da 'questioni private', emerge in tutta la sua evidenza. La visione critica di una rivoluzione imposta non intacca però il valore della ricerca di giustizia di alcuni di loro, capaci di coltivare il dubbio e di smascherare le illusioni più pericolose.

'Un giorno, grazie al nostro lavoro, spunteranno fiori, frutti, i bambini mangeranno. Se nessuno s'occupa del giardino il mondo finisce' riflette alla fine Eleonora, rivendicando il proprio lavoro, il proprio impegno nel seminare, far nascere, coltivare idee.

Utilizzando diverse tecniche, dall'accumulazione al flusso di coscienza, e lingue diverse oltre l'italiano (portoghese, francese, napoletano), 'Il resto di niente' ricostruisce con grande precisione un ambiente, un momento storico, una città evidentemente molto amata. La scelta di una donna, come personaggio centrale, arricchisce la storia di un punto di vista diverso, quel 'woman's corner' di cui parlava Virginia Woolf.

Valentino di Natalia Ginzburg

Ho ascoltato Valentino di Natalia Ginzburg dalla voce di Michela Martini, per Ad Alta Voce di Radio Rai 3: le letture offerte dalla radio per celebrare il centenario della nascita della scrittrice mi hanno fatto innamorare di questa voce meravigliosa della nostra letteratura, che conoscevo solo in parte. Valentino, romanzo breve pubblicato da Einaudi nel 1951, ha la stessa scrittura-parlata de Le piccole virtù e di Lessico familiare, la stessa capacità di farci vedere i personaggi nella loro vita quotidiana, la stessa sensibilità tranquilla ma acutissima accompagnata da un affetto palpabile per le persone di cui racconta. L'impressione è quella di una timida ma attentissima osservatrice, capace di cogliere gesti e discorsi e di conservarli come preziosi reperti di quello che è stato e di quello che è.
Caterina, l’io narrante,  ricostruisce in prima persona il suo rapporto con il fratello Valentino, giovane narciso inconcludente di provincia , totalmente preso da se stesso. Squattrinato e privo di volontà, delude i suoi genitori, soprattutto il padre che lo voleva medico; con astuta meschinità si cerca una moglie ricca quanto brutta, che però lo ama: potrà, così, vivere nell’ozio, fingendo di studiare, in realtà godendosi la vita insieme all'amico Kit, cugino della moglie, che come lui è un inconcludente, anche se di animo più generoso e meno malizioso. Caterina seguirà il fratello, perché invitata dalla cognata Maddalena, nella sua casa, condividendone la vita. Il suo desiderio di una vita indipendente, anche povera, anche senza amore, non potrà essere appagato a causa del fratello, noncurante è colpevole della infelicità di chiunque si leghi a lui.
'lui si è preso sempre tutto quello che la gente gli ha dato, senza sognarsi di dare niente, senza tralasciare un sol giorno di carezzarsi i ricci davanti allo specchio e di farsi un sorriso. Lui che certo non ha mancato di farsi quel sorriso allo specchio, neppure il giorno della morte di Kit'

Una storia familiare che riesce a coinvolgere completamente, grazie ad una scrittura mai banale e scontata: una semplicità che non ha niente di ingenuo, ma che è il risultato di un percorso per arrivare a raccontare con voce autentica ciò che semplice non è.

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout

Da alcune settimane in ospedale per un'infezione, Lucy Barton si trova in camera la madre, che non vedeva da anni; a chiamare in aiuto la suocera è stato il marito, troppo impegnato con il lavoro e le due figlie per riuscire a tenere compagnia alla moglie durante la lunga degenza. La donna è arrivata a New York da una piccola cittadina dell'Illinois, Amgash, ed ha preso l'aereo per la prima volta. Inizia così un breve periodo -cinque giorni- di vicinanza: Lucy non vuole altro che ascoltare la voce della madre che racconta le storie degli abitanti del paese lontano, la voce la culla, la calma, la riempie di affetto. Le parole che si scambiano madre e figlia sono allegre, leggere, divertenti; il non detto rimane tale, ma attraverso quella condivisione il passato riemerge e trova le parole per essere narrato, senza rancore, con comprensione ed amore.
' ...ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra  unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola', dice Sarah Payne, che insegna scrittura e che ha in comune con Lucy la provenienza da un passato di povertà in provincia. La storia di Lucy, la sua unica storia, è simile a quella di Sarah: lo sforzo di raccontare qualcosa di vero legato alla povertà e la difficoltà nel farlo.
' e poi mi resi conto che nemmeno lei, nei suoi libri, raccontava esattamente la verità, che si teneva sempre alla larga da qualcosa'. È una cosa che Lucy capisce, perché anche lei si tiene alla larga da qualcosa: 'viene dal nulla', aveva detto di lei la suocera presentandola ad un'amica. Quel nulla, un niente agli occhi della upper class newyorkese, è un luogo denso e affollato, che Lucy, un pezzetto alla volta, lascia emergere: c'è un furgone, una guerra e le sue conseguenze, tanta povertà. Quel nulla è l'identità di Lucy, che deve trovare forma ed integrarsi in quello che è diventato il suo presente: dopo, solo alla fine, potrà dire che questa è la sua storia. 'Ed io mi chiamo Lucy Barton'.

martedì 30 agosto 2016

Purity di Jonathan Franzen

L'architettura di Purity è eccellente: l'intreccio è complesso e avvincente, in bilico tra romanzo sociale, storico, distopia e finezza introspettiva. Dalla Repubblica Federale Tedesca oppressa dalla Stasi al 'paradiso' del Belize come centro di lotta per la 'trasparenza' delle informazioni, le linee narrative si snodano seguendo avanti e indietro nel tempo la storia di Pip, Anabel, Tom e Andreas.
La giovane Purity, soprannominata Pip, è la voce più giovane del romanzo: cresciuta con una madre decisamente strana e che non le ha mai rivelato l'identità del padre, la ragazza accetta un invito misterioso per uno stage in Belize, alle dipendenze di un leader carismatico e ambiguo, impegnato nella diffusione in rete di documenti segreti, in nome della trasparenza e dell'idealismo. Ma Andreas Wolf nasconde una storia tormentata e la sua vicenda si intreccia con quella di Purity;  l'intreccio si basa su questo convergere di tutti i personaggi verso un punto d'incontro, un qualche segreto che è la merce di scambio nella lotta per il potere.
Come nei precedenti romanzi di Franzen, molte sono le pagine angoscianti: i personaggi sono invischiati in relazioni malate e in rapporti di dipendenza,  le discussioni sono spesso gorghi nei quali le parole trascinano verso la follia. Non a caso, il rumore di una pallina da tennis contro il muro  sarà per Pip il suono della serenità: un suono senza significato, ripetitivo e rassicurante come quello della pioggia sui tetti.
dal punto di vista del  romanzo 'sociale' non saprei dire se Franzen sia riuscito nel suo intento: la denuncia dei social network come nuova forma di dittatura colpisce nel segno e mi è piaciuta la contrapposizione tra giornalismo 'alla vecchia maniera' e i fantasmi alla Julian Assange. Ma il centro degli interessi di Franzen mi è sembrato ancora una volta il nucleo delle relazioni affettive e sessuali: i ritratti  di alcuni dei  personaggi sono impietosi, tanto da risultare a tratto disgustosi.
Sulle donne, in particolare, Franzen si accanisce con crudezza, forse perché sono al centro di ogni vicenda, ed è per amore e odio di madri e compagne che si muovono gli uomini del romanzo, in perenne lotta tra fuga e legame. Donne, ad esclusione della giovane Pip e dell'unica non-madre della vicenda, che sono, in generale, piuttosto fuori di testa. Centrale e perfetto il  ritratto di Anabel, donna umorale e 'lunatica':  la vita sessuale di Anabel è letteralmente legata ai cicli della luna e ai cicli mestruali, la sua arte è un'arte di ossessiva e fallimentare esplorazione del proprio corpo, la sua debolezza l'arma che lega a sé, la maternità la sua forza e il suo ricatto. Le altre non sono da meno: sottraggono figli ai padri legittimi, tengono incatenati i figli con ricatti, sensi di colpa e malattie 'disgustose': le metafore della casa come stomaco, tutto acidi e dolori, e della madre-colon, talmente segnata dall'emotività da ammalarsi di colite, così che Franzen può descriverla come produttrice di puzza, feci e sangue, sono piuttosto esplicite. Il femminismo è spesso associato a questi estremi di malattia e non senso, capaci di generare negli uomini altrettanta follia, a meno che non fuggano in tempo. È un ritratto che non ho amato, ovviamente, anche se il punto di vista cambia diverse volte nel romanzo e la tenerezza di Pip verso le debolezze degli adulti riscatta in parte lo sguardo ossessionato di altri personaggi.
È un grande romanzo? Sì, per capacità tecnica, costruzione, capacità di coinvolgere e trasmettere emozioni (ansia, soprattutto, rabbia, barlumi di pietà e molta ironia). Che sia poi un ritratto dell'oggi, degli Stati Uniti oggi, non saprei ma non credo: mi sembra più il ritratto di quello che l'autore odia, o di cui è ossessionato, come poi in parte succede sempre. Non ha quasi niente a che vedere con il mio sguardo sulle cose, ne riconosco la bravura ma no, non suona per me, questa voce: mi vien voglia di scappare lontano lontano.

venerdì 5 agosto 2016

L'altra figlia di Annie Ernaux

Scritto breve, un testo autobiografico che prosegue il lavoro di Annie Ernaux sulla memoria dei precedenti, Gli anni' e 'Il posto'. Se ne 'Gli anni' la memoria privata e personale lasciava spesso spazio alla memoria collettiva, ne 'Il posto' Annie Ernaux si è avvicinata alla sua storia individuale e ha raccontato della sua famiglia e del suo distacco dalla classe sociale proletaria nella quale era cresciuta con la scrittura  'oggettiva' che utilizza; la Ernaux preferisce fotografare un oggetto o un modo di parlare piuttosto che dar spazio ai sentimenti. In 'L'altra figlia'racconta una vicenda davvero sorprendente e inquietante, un silenzio che suoi genitori hanno mantenuto per tutta la vita: lei lo ha saputo in modo indiretto, da bambina, ma poi non ne hanno mai parlato. I genitori avevano avuto una figlia, prima di lei, morta a sei anni di difterite. Non le hanno mai detto niente, credendo sicuramente di fare bene, di non darle un carico di tristezza troppo grande. Hanno tenuto per loro il dolore e hanno chiuso fuori la secondogenita dalla prima triade, escludendola da un elemento fondamentale della loro storia. Ma neanche lei ha indagato, non ha mai chiesto niente e solo a distanza di tanti anni - così scrive - ha deciso di mettersi di fronte a questa assenza. Un lavoro sulla memoria che si avvicina al tema del rimosso senza mai lasciarsi andare troppo: la scrittura della Ernaux è 'fredda', funziona per sottrazione, per immagini precise.
Mi ha ricordato 'Dora Bruder di Modiano perché è allo stesso modo la ricerca di un fantasma del quale si hanno pochissimi indizi. Ma in questo caso il fantasma è un 'doppio' dell'autrice e non ho potuto fare a meno di chiedermi quanto possa essere potente avere alle spalle un tale segreto.
Per cortocircuito, avendo appena letto Mi chiamo Lucy Burton ' di Elizabeth Strout ho pensato anche alla storia di Lucy, e al tempo in cui si chiudono i conti in sospeso con i propri genitori.

Le piccole virtù di Natalia Ginzburg

Le piccole virtù è una raccolta di saggi scritti dalla Ginzburg tra il 1944 e il 1960, pubblicata da Einaudi nel 1962. Scrittura asciutta, a tratti brusca e insieme poetica: c'è un ritmo, in queste pagine, che incanta e avvince, un ritmo sommesso, nascosto, reticente. Tutto è misurato, concreto, dettato dallo sforzo di essere intellettualmente onesta. Bellissime le memorie del confino con il marito Leone ed i figli; perfetto il ritratto di Pavese, lucido e pieno di affetto, privo di retorica e capace di individuare con parole chiare il male di vivere dell'amico; delizioso il ritratto coniugale in 'Lui e io'. La Ginzburg 'moralista' poi, riserva alcune perle negli articoli dedicati alla scrittura, ai rapporti umani, all'educazione dei figli: lo scritto che dà il titolo alla raccolta e che la chiude è ancora attualissimo e dice, sul rapporto con i figli, alcune cose fondamentali e bellissime sul denaro, sulla libertà, sull'autorità. Una lettura preziosa, che consiglio a tutti e che si conclude con una indicazione precisa, sempre vera, su quello che possiamo fare per aiutare i nostri figli a trovare la loro strada.

'Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l'abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dall'ombra e dallo spazio che richiede il germoglio d'una vocazione, il germoglio d'un essere. Questa è forse l'unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca d'una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l'amore alla vita genera amore alla vita'.

(L'ho ascoltato - e insieme letto - dalla voce di Michela  Cescon per Ad alta voce, Radio 3 - il cielo benedica il podcast e la radio tutta)