sabato 10 dicembre 2016

Lo schiavista di Paul Beatty

'Ti ricordi quelle foto del presidente nero e della sua famiglia che camminano sottobraccio sul prato della Casa Bianca? All'interno di quegli scatti, in quel preciso istante, è solo quello, non c'è nessun cazzo di razzismo'

Ecco, si può partire da questa considerazione per capire qual è il centro pulsante de 'Lo schiavista', vincitore del Man Booker Prize 2016: gli anni della presidenza Obama hanno regalato bellissime immagini del superamento del razzismo, ma di questo si tratta, di immagini, apparenza, superfici patinate. Un uomo nero che diventa presidente è un passo avanti verso una società senza discriminazioni, è innegabile; ma i percorsi culturali che portano (se mai accadrà) ad una convivenza tra etnie e generi non giocata sui rapporti di forza sono lunghi, tortuosi e richiedono un lavoro profondo. Ispirandosi agli studi sullo sviluppo dell'identità nera, Paul Beatty riesce a costruire una trama sul tema della razzismo rimosso negli anni del politicamente corretto.


«So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato».

Questa la voce narrante, il protagonista Bonbon, nato a Dickens – ghetto alla periferia di Los Angeles - cresciuto dal padre sociologo che lo ha sottoposto fin da bambino a una serie di assurdi esperimenti sulla razza. Il  padre viene ucciso dalla polizia in una sparatoria e successivamente  il ghetto di Dickens viene cancellato dalle carte geografiche: è la soppressione silenziosa e senza spargimenti di sangue di una identità. A quel punto il più famoso residente della città – Hominy Jenkins, celebre protagonista della serie Simpatiche canaglie ormai caduto in disgrazia – non regge a questa realtà sfuggente e falsamente egualitaria e prega Bonbon di assumerlo come schiavo, nella confusa sicurezza che quella sia l'unica parte nella quale si sentirà di nuovo bene. Da qui all'idea di ripristinare la segregazione razziale il passo è breve e Bonbon si trova a guidare un esperimento che potrebbe far rivoltare il padre nella tomba.

Brillante, esplosivo, imperfetto, 'Lo schiavista' è un romanzo coraggioso e di inarrestabile energia, rabbia e riflessione. La fatica di dimostrarsi all'altezza della fiducia dei bianchi pesa e intristisce, fino a spingere Bonbon a rovesciare il tavolo,  le carte e le regole del gioco: basta con il 'sorrisetto inerte', l'atteggiamento servile e la faccia indossata nell'ansia di compiacere il potere.

'La faccia indossata ogni singolo istante in cui sei al lavoro e non ti trovi in bagno, esibita al bianco che ti passa accanto e con aria condiscendente ti batte una mano sulla spalla e dice: <<Stai facendo un ottimo lavoro. Continua così >>. La faccia che finge di essere convinta che sia stato l'uomo migliore a ottenere la promozione, anche se nel profondo sia tu sia loro sapete bene che in realtà l'uomo migliore sei tu, e che l'uomo migliore in assoluto è la donna al secondo piano'



.

mercoledì 7 dicembre 2016

Madame Bovary di Gustave Flaubert


(la soddisfazione delle riletture 😊, scoprire che la bellezza di un romanzo è data, in parte, dalle tante eco che la voce del narratore fa risuonare)

Oh il futuro, orizzonte roseo dalle forme superbe, dalle nubi dorate, là dove il vostro pensiero vi accarezza, e il cuore parte in estasi e che, via via che si procede, come in effetti l'orizzonte, arretra, arretra e sparisce. Ci sono momenti in cui si crede di toccare il cielo, che si stia per afferrarlo con la mano, crac, una piana, un vallo che scende, e si corre sempre trascinati da se stessi per rompersi il naso su un sasso, affondare i piedi nella merda, o cadere in una fossa.'

Così scriveva il giovane Flaubert ad un amico e questo ripete più e più volte nelle lettere: che siamo degli esseri pieni di desiderio e di tensione verso la bellezza ma la vita è un deserto di fango e materia alla quale noi stessi, con la nostra bêtise, contribuiamo. Parola chiave di Flaubert, bêtise: si tratta di una stupidità specifica e molto diffusa, a parere dello scrittore, una sorta di ignoranza, un'incapacità di vedere la realtà per quel che è, il linguaggio dei luoghi comuni e del non-pensiero.
Madame Bovary e tutti gli altri personaggi del famosissimo romanzo partecipano di questa 'bestialità', di questa lettura del reale stupida e conformista. Emma, donna vitale e appassionata, guarda al mondo attraverso le lenti del romanticismo più sciocco: immagina cavalieri, castelli, dame eleganti e drammatiche, gondole e tessuti preziosi come scenari indispensabili al manifestarsi dell'Amore, la passione totale, il fuoco che dovrebbe divampare e incendiarla; il farmacista Homais, uomo pratico ed ottimista, si affida ad una cieca fiducia nelle 'magnifiche sorti et progressive' dell'umanità che Flaubert derideva al pari di Leopardi, in nome delle quali condurrà Charles Bovary ad una operazione pericolosa su di un povero ragazzo zoppo: punto centrale del romanzo, l'intervento che il dottor Bovary viene spinto a tentare provocherà profonda infelicità a Charles ed al ragazzo. Il più 'bestiale' di tutti sembrerebbe proprio lui, il signor Bovary, ritratto fin dall'inizio del romanzo come un ragazzo impacciato, con un ridicolo berretto e maniere da contadino intimidito: ma forse, nella sua natura mite e tranquilla, è meno colpevole di altri dell'infelicità di Emma: più di così non potrebbe proprio fare.
La storia è nota: Emma sposa il medico Charles Bovary dopo aver passato anni in convento e poco tempo a casa con il padre; non sa niente della vita, ma è un essere del desiderio: sogna di essere una moglie soddisfatta ma la realtà la delude; sogna di essere ricca ma ogni passo la porta verso la rovina economica; sogna il grande Amore ma troverà due amanti con i quali reciterà i ruoli contrapposti di dominata e dominatrice, senza che i due uomini facciano per lei quello che desidera e cioè portarla via, fuggire, evadere da quel deserto che è la vita di provincia per collocarla dove si sentirebbe a casa: nel centro del magma (...Parigi!) o nel silenzio dell'infinito ritmo universale (la notte, il cielo stellato, il movimento delle onde). Vorrebbe essere un uomo, Emma Bovary, per non dover dipendere da altri e poter prendere in mano il proprio destino; chissà, cosa ne avrebbe fatto, in quel caso, di tanta ambizione...
Emma ci irrita e non c'è nulla in lei che susciti l'empatia del lettore: recita, mente, è fredda e sprezzante, non riesce neppure ad amare la figlia. Eppure, la trappola in cui la sua vita si trasforma, la sua lunga e dolorosa agonia (Flaubert soffrì di dolori terribili, mentre la scriveva), ci ricordano le nostre trappole e i nostri deserti. La voce di Flaubert ci incanta, nel suo mantenersi in bilico tra distanza e partecipazione, nel suono che produce l'intersecarsi della voce di Emma con il quella del suo burattinaio, che la deride e ride di sé e di tutti noi per la nostra implacabile sete: desiderio puro per l'impossibile nel deserto della vita.
Madame Bovary è prima di tutto 'stile', perché questa era la scommessa di Flaubert che lavorò al testo quasi cinque anni, scrivendo e riscrivendo: tentare una prosa che avesse in sé il ritmo della grande poesia del passato e insieme uno stretto rapporto con il 'reale'. La ricerca della forma, all'opposto della bêtise, ci salva dal vuoto del pensiero e del linguaggio ed è l'unica trascendenza possibile per il cinico Flaubert.

domenica 2 ottobre 2016

Le ragazze di Emma Cline


«Non appena mi cadde l'occhio sulle ragazze che attraversavano il parco, la mia attenzione restò fissa su di loro. Quella dai capelli neri con le sue accompagnatrici, la loro risata un rimprovero alla mia solitudine. Stavo aspettando che succedesse qualcosa, senza sapere cosa. E poi ecco».


Evie è una ragazzina, quasi una bambina. Vive con la madre, dopo che il padre se n'è andato con una ragazza più giovane. Va a scuola, ha un'amica del cuore, Connie, con la quale passa giornate interminabili ad aspettare che accada qualcosa: che qualcuno la veda, che un ragazzo la guardi e le faccia capire che va bene. Un giorno incontra in un parco un gruppo di ragazze, diverse da tutto quello che conosce: incuranti degli sguardi, chiuse nella loro alleanza, altere e sprezzanti. Evie se ne innamora all'istante, di tutte loro, ma soprattutto di Suzanne, che è con evidenza la più forte, la più oscura, la più affascinante. Da quel momento inizia per Evie una nuova vita, finalmente la vita dove le cose accadono, dove un uomo come Russel, guida spirituale del gruppo, ti guarda e ti dice che sei speciale.
Il meccanismo della suspence funziona perfettamente in questo romanzo che ricostruisce la storia di una strage ricalcata su fatti veramente accaduti, gli sconvolgenti omicidi di Sharon Tate ed amici, avvenuta a Beverly Hills nel 1969 per mano di seguaci di Charles Manson.
Evie, ci viene detto fin dall'inizio del romanzo, non verrà coinvolta nella strage, non verrà accusata, rimarrà nell'ombra: non vista, ancora una volta. E dovrà convivere con la consapevolezza della propria complicità profonda con quel mondo di ombre: un buio che allora pareva luminosissimo, quando lo sguardo di Suzanne illuminava ogni cosa.
Evie, la ragazzina, la quasi-bambina sulla linea d'ombra: concentrata sull'essere vista, più che sul costruirsi; una informità pronta ad assumere le sembianze richieste, se queste assicurano amore, attenzione. Anche a scindersi, per guardarsi da lontano fare cose che non sa se vuole: sesso, droghe, delinquenza. Ma sapere cosa si vuole richiede un'attenzione diversa, rivolta ad altri canali della propria sensibilità; canali che trasmettono così debolmente, a volte, che le onde di quello che chiedono gli altri possono coprire completamente. Si scompare, allora, per essere presenti solo come forma mutevole, pronta ad adattarsi alle richieste. Un pericolo particolarmente femminile, dichiara la giovane autrice.
'Non che stessero cadendo da chissà quali altezze: sapevo che il semplice fatto di essere una ragazza a questo mondo ti riduceva la capacità di credere in te stessa. I sentimenti sembravano qualcosa di totalmente inaffidabile, come balbettii sconnessi ricavati da una tavoletta per le sedute spiritiche'.
Ma in fondo, il racconto di Albinati ne La scuola cattolica, ci racconta che anche per i giovani maschi il collante è tutto nel loro continuo confronto, ed i corpi femminili sono a volte terreno di scontro per una faccenda prevalentemente maschile. La costruzione dell'identità passa sempre attraverso lo sguardo di un contesto che ti si può chiedere di essere docile o violento, o docilmente violento.
Una coincidenza, l'interesse della giovane americana Emma Cline e del nostro più maturo Albinati per la violenza che si genera nel branco e per le questioni di genere, che mi fa riflettere su cosa ci sia nell'oggi che ci riporta a pensare al quegli anni a quelle follie.


mercoledì 31 agosto 2016

Regressione

'In effetti, quelle nuvole in cielo che come grandi mammelle gonfie di latte promettono infinito piacere alla bocca pronta a succhiare, non sono il sogno dei sogni? Non sarebbe bello dormire, per sempre dormire, per sempre immersi nella promessa del latte o della manna dal cielo?'

La tentazione della regressione in Vivere nella tempesta di Nadia Fusini.

A Calais di Emmanuel Carrère

À Calais è un breve reportage commissionato dal trimestrale XXI per la primavera di quest'anno. Carrère ha scelto di raccontare il luogo ed i suoi abitanti senza addentrarsi nella Giungla, un 'incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili'. Ha deciso di rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti, che dicono 'non ne possiamo più di parlare solo di questo, per favore non ne parliamo' con la stanchezza si chi convive da anni con un malato cronico e vorrebbe per un attimo distrarsi, vedere se stesso e la propria vita come 'altro' da quel dolore, da quel problema, da quel legame che uccide, ma che poi mentre parla d'altro continua ad ascoltare i rumori che provengono dalla stanza di là, in allarme e in apprensione, così che il malato è sempre presente, anche quando non lo si nomina: perché siamo legati a doppio filo, noi e lui, e la nostra vita è compenetrata dalla sua. Così gli abitanti di Calais, anche quando vorrebbero parlare di altro, non riescono a farlo: ogni cosa che li circonda è legata alla Giungla, il rumore degli elicotteri ha sostituito quello delle macchine dei merletti, le discussioni pro e contro migranti sono diventate il centro di ogni discorso.
' Pro migranti nel vero senso della parola non ce ne sono, dato che nessuno è favorevole ad avere alle porte di una città di settantamila abitanti una popolazione di settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo' è che passano le giornate te tanto di eludere la sorveglianza per salire su un camion e provare la sorte: difficilissimo passare l'Eurotunnel, i controlli sono oramai sofisticati e includono rilevatori del battito cardiaco: in un reportage televisivo hanno raccontato di quelli che prendono medicinali e si infilano nei freezer, consapevoli dell'altissima probabilità di morire.
Le risorse richieste per il contenimento della Giungla sono altissime, includono reparti speciali e controlli capillari, pagati dai francesi secondo l'accordo con il Regno Unito, che ci ha messo il denaro per i muri.
Poche pagine per un veloce sguardo a Calais e alle nostre frontiere, tenendo a mente il graffito di Bansky che rappresenta Steve Jobs, un versetto della Bibbia che ricorda di accogliere lo straniero e la diffidenza verso questo genere di operazioni: ma cosa vuoi, avvoltoio? Te ne vieni qui per quindici giorni e pensi di aver capito qualcosa, di come si vive?

Aggiunge forse poco a quel poco che sappiamo, ma è comunque importante come ogni discorso che tenta di rappresentare e rendere visibile il cuore di tenebra che abita negli interstizi del nostro mondo e che, insieme ai migranti del mare, accompagna ogni nostro giorno di europei, anche quando non ne parliamo: da qualche parte, dentro di noi, lo sappiamo; e parlarne, almeno, è un primo passo.

Cronache da Lampedusa di Loredana Lipperini

Non è un romanzo, non è stato stampato: sono cinque 'pezzi' (non facili, se vogliamo giocare con il facile accostamento al film) che Loredana Lipperini, giornalista e conduttrice radiofonica di Farehneit, ha dedicato sul suo blog a Lampedusa, in occasione del primo anno di gemellaggio con il festival letterario di Ventotene. Pezzi di giornalismo di alto livello, toccano i nodi cruciali di quello che oggi 'significa' l'hotspot dell'isola, luogo ai margini dell'Europa e nello stesso tempo centro dei movimenti migratori che puntano al vecchio continente. Si avvicina con cautela, Loredana Lipperini, con tutta la consapevolezza di essere estranea, in un qualche modo turista, seppure piena di interesse onesto e partecipe. Ci racconta dell'isola, della biblioteca, dei pescatori fotografati dai giornali, delle associazioni che lavorano per aiutare, denunciare, ricordare; del cimitero, del valore dei nomi, della contraddizione feroce che ogni racconto su ciò che umano non è, porta con sè: raccontare e far capire ciò che non dovrebbe esistere, pensando che raccontare è necessario ma che quello che davvero si vorrebbe è fare in modo che non esista.
La 'restituzione' di Loredana Lipperini, è una delle forme più alte di amore e rispetto per la narrazione e per la lettura come tramite per meglio vedere il mondo: il richiamo al celebre racconto di Carver, Con tutta quell'acqua intorno a casa, è perfetto per illuminare la nostra condizione oggi, con tutta quell'acqua intorno, con tutti quei corpi nell'acqua, e noi che andiamo a pescare, senza l'adrenalina di Costantino Baratti, che torna al lavoro dopo aver salvato tutte le vite che poteva salvare. Da leggere, perché è sono davvero belli e perché l'amore per la lettura, se non diventa tramite per arrivare al mondo, forse non è poi una gran cosa. Il pane e le rose, senza dimenticare né l'uno né l'altro, per nessuno.

Lampedusa di Maylis de Kerangal



' Dormono tutti. Fumerei volentieri una sigaretta. La radio dipana a basso volume un filo sonoro che mormora nello spazio, gira e ruota su se stesso come il nastro di un ginnasta. Non reagisco subito a quella voce che, in apertura del giornale radio dopo i dodici rintocchi della mezzanotte, farfuglia in tono di circostanza la sinistra tragedia di questa mattina, percepisco solo un'accelerazione, qualcosa precipita, qualcosa di febbrile. Poi il nome si deposita: Lampedusa'

Breve testo commissionato all'autrice, così come A Calais di Carrère: iniziative francesi a mio parere meritevoli, se aiutano a trovare le parole per il nostro presente. Le rotte dei migranti verso le nostre coste è ovviamente un tema centrale dei nostri tempi, condiziona e determina scelte importanti (lo abbiamo visto appena ieri con i risultati del referendum nel Regno Unito), ed intorno ad esso si muovono pensieri, discorsi, interessi onesti o indecenti: c'è poco da fare, i flussi migratori sono una cosa potente, sono legati ad interessi economici e nello stesso tempo hanno un forte impatto emotivo, evocano spettri (i barbari! il crollo dell'impero romano!), suscitano sdegno, dolore e rabbia e paura; il punto di vista che prevale, è ovviamente il nostro (quelli che stanno a casa loro, nel loro piccolo, piccolissimo o enorme privilegio). Ogni voce che racconta quello che accade, cercando un discorso profondo, è indispensabile, a mio parere: non vorremo essere in futuro quelli che non sapevano, dove andassero quei treni.
Maylis de Kerangal è una bravissima scrittrice (Riparare i viventi è un romanzo davvero bello, e approfitto per consigliarlo ancora una volta): costruisce un percorso narrativo sulla notte del 3 ottobre 2013, quando a due km da Lampedusa affondò il barcone sul quale era scoppiato un incendio, causando la morte di almeno 300 persone. È la notte di Costantino Baratti, di cui ci ha parlato anche in questi giorni Loredana Lipperini.
Una donna, nel silenzio della notte, sola in cucina, apprende dalla radio quello che è accaduto e la sua mente parte per un viaggio intorno all'isola di Lampedusa, a quello che evoca quel nome per lei, donna francese, colta, innamorata dei toponimi e del rapporto tra i nomi e il mondo. A partire da quel Tomasi di Lampedusa, reso cinema da Visconti, che un secolo fa raccontò il 'naufragio' di un mondo, Maylis de Kerandal alla fine della notte, dopo aver evocato il principe di Salina, Le vie dei canti di Chatwin, i viaggi a Stroboli, tutto ciò che l'idea di isola  porta con sé, deve concludere che qualcosa è cambiato, per sempre e quel nome di leggenda e di cinema (oh, il ballo di Tancredi ed Angelica!) avrà per sempre un'eco diversa.

'... ma quella mattina, la mattina del 3 ottobre 2013, (quel nome) si è rivoltato come un guanto, Lampedusa concentra ora in sé solo la vergogna e la ribellione, il dolore, segnala ormai uno stato del mondo, tutta un'altra storia'.

È tutto questo, ancora una volta, riguarda noi che guardiamo da riva, piedi a terra e vestiti asciutti: per tutte quelle persone, quelle donne e ragazzi e uomini e bambine e bambini e neonati e madri, padri, sorelle, zie, fratelli, amici, il nome Lampedusa significa rinascita, approdo, salvezza, finalmente, e adesso?, infine, la fine, il silenzio, la croce senza nome, il nome finalmente trovato da qualche anima caparbia e pietosa, il nome e una foto accanto alla croce, per sempre, e così non sia.

La vita felice di Elena Varvello

' Nell'agosto del 1978, l'estate in cui incontrai Anna Trabuio, mio padre portò nei boschi una ragazza.
Si era fermato col furgone sul ciglio della strada, prima del tramonto, le aveva chiesto dove stesse andando, le aveva detto di salire.
Lei accettò il passaggio perché lo conosceva.
Lo videro viaggiare a fari spenti in direzione del paese, ma poi lasciò la strada, prese un sentiero ripido è sconnesso e la costrinse a scendere, la trascinò con sé.'

Inizia così, La vita felice di Elena Varvello, con un'anticipazione che mette in moto l'attesa, la tensione che ci spinge a voler capire cosa è successo e perché. Il meccanismo è in parte quello di una crime story, ma lo sguardo che indaga e ricorda è quello di Elia, il figlio di quell'Ettore Furenti che quell'estate trascina nei boschi una ragazza, segnando così un taglio netto tra quello che era la vita prima e quello che sarà; e nello stesso tempo, avventurandosi nel buio dei boschi porterà alla luce e lascerà deflagrare il malessere che da tempo lo accompagna.
Con una narrazione pulitissima, fatti di dialoghi, luoghi, molti silenzi e densissime reticenze, il romanzo ci porta nel cuore di una famiglia ferita, nella quale l'amore saldissimo e luminoso della madre di Elia per il marito tenta in ogni modo di arginare, sostenere, accompagnare un uomo nelle sue oscurità, senza riuscire a raddoppiarsi per accompagnare altrettanto il figlio; fa tutto quello che può, ma naturalmente non basta.
È un romanzo su una formazione dolorosa, sull'amore e sulle triangolazioni inevitabili: Anna è per Elia la forma del desiderio, ma anche madre, sorella; allo stesso tempo permette al ragazzo di calarsi nei 'panni' del padre e di avvicinarsi ad un doppio della madre); Elena Vivarello racconta con voce controllata e intensa il dolore di crescere quando 'la famiglia' è una costellazione di luci che affiorano sul buio profondo, una cielo ferito da tempeste che si affacciano su infiniti buchi neri; di come si può crescere senza odiare, nonostante tutto, il proprio passato ed i propri genitori, facendo i conti con le 'assenze' e le colpe, per diventare Telemaco, come direbbe Recalcati.
Diventare grandi vuole dire anche questo: vederli, questi genitori, come persone, con tutte le loro ricchezze e mancanze. Perdonarli, lasciarli andare; proprio per questo, credo, la voce di Elia suona così  controllata e intensa: è intrisa di tutto l'amore e di tutto il dolore di ogni figlio che abbandona i genitori al loro destino, dopo tutto il male e il bene che ci sono stati.

'Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce  le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.'
Questa frase di Alice Munro ha accompagnato la scrittura di Elena Varvello: uscirne vivi, non casualmente, si intitola la raccolta da cui è tratta.
E per uscirne vivi, una direzione è lasciar perdere ciò che pensavamo di meritare, ciò che pensavamo ci fosse dovuto, quello che credevamo fosse nostro diritto, quando ancora eravamo figli.
' È questo che deve tenerti legato alle persone, Elia. Il bene. Il resto è solo quello che crediamo di meritare, e non vale granché, la maggior parte delle volte.'

Quello che crediamo di meritare, un pensiero da lasciar perdere: a questo non pensarci, Elia, vai avanti, avrai una vita felice.

La triomphante di Teresa Cremisi

Si respira, leggendo La Triomphante: l'odore del mare, la libertà dai recinti, il trionfo e l'abbandono; una bella lettura per tempi di sguardi a terra e porte chiuse a doppia mandata.

' Ho un'immaginazione portuale.
Sono tante le cose che mi fanno battere il cuore -foto ingiallite, poesie, canzoni, scene di film- è quasi tutte mostrano o raccontano di banchine, navi, dock, balle di cotone, container, gru, uccelli marini'

Si apre così l' autobiografia romanzata di Teresa Cremisi, primo romanzo della donna che ha guidato la maison Gallimard e le edizioni Flammarion, nume tutelare di Michel Houellebecq e Yasmina Khadra.
Il porto, luogo di apertura verso il mare e l'altrove e al tempo stesso rifugio per chi si trova in balia di onde e tempeste, è dichiaratamente una prima chiave di lettura per raccontare una vita dalle mille radici, sempre proiettata in avanti, verso l'avventura successiva, sempre aperta al possibile, agli orizzonti sconfinati, ai territori internazionali del mare, dove il concetto di patria è fluttuante; a cominciare dal porto 'sepolto' di inesauribile segreti, Alessandria d'Egitto, punto cardine della Storia dove la  protagonista viene alla luce, da un padre di passaporto italiano e origine ebraiche, commerciante ateo che parla francese, italiano, inglese ed arabo e da una madre scultrice, che parla francese, greco e italiano, dal passaporto inglese e con una grande resistenza nella guida dei fuoristrada. Una vita da ricchi privilegiati, una totale noncuranza per qualsiasi idea di patria, identità, religione; il francese come lingua più usata, come patria immaginaria. Nel 1956, la crisi politica, la nazionalizzazione del canale di Suez, la fuga in Europa, a Roma e poi a Milano.
I genitori, capaci di vivere nelle capanne del Delta del Nilo o di imbarcarsi per vacanze di mesi verso Antibes, si perdono nella città produttiva ed efficiente e vanno alla deriva nel letto del loro appartamento, davanti alla tv: la madre cade in una lunga depressione e la giovane protagonista cerca un lavoro nel mondo dell'editoria. Davvero toccante il racconto delle difficoltà ad adattarsi ad un nuovo mondo, parole che fanno riflettere su quanto possa essere faticoso il processo di ridefinizione che comporta ogni sradicamento.
' Come vuole una regola infallibile, la più valida risultò essere anche la più fragile. Mia madre, che sarebbe stata capace di guidare una jeep tra le montagne dell'Afghanistan, non era in grado di fare la spesa'.
Per la protagonista inizia una vita di impegno e di affermazione, di successi e di fatiche, una nuova vita dove la protagonista si trova bene, al contrario dei genitori: anche se deve rinascere, attraverso una nuova lingua.
' Lo stravolgimento era totale. Stavo cambiando lingua e questo comportava una rivoluzione interiore. Ci sono interi trattati di neuropsichiatria al riguardo. La nostra stessa voce suona diversa, diciamo cose che non avremmo detto, pensiamo in modo un po' diverso, non reagiamo alla stessa maniera. La lingua che usiamo condiziona il nostro corpo e i nostri sogni. Un'altra cultura si fa strada in noi attraverso canali insospettabili, improvvisamente il mistero di una canzone, di una battuta diventa accessibile, capiamo i sottintesi, possiamo scherzare. Quando parliamo per tutto il giorno una nuova lingua può accadere che la nostra vita prenda un'altra direzione e che il nostro carattere si modifichi'.
La lingua che in seguito sceglierà come propria sarà il francese parlato dai genitori: ricordando Canetti, che decise per il tedesco, Teresa Cremisi torna a toccare il tema dell'identità e della patria non come dato di natura, ma come scelta, almeno in parte.
Bellissima anche la parte finale del romanzo (a questo punto davvero romanzo, direi, che si proietta in un futuro forse sognato e desiderato dall'autrice): conclusa la sua parabola lavorativa la protagonista si ritira ad Atrani, dove vive sul mare e nel mare, nuotando, contemplando e dedicandosi alla sua grande passione spesso tenuta segreta: le navi, le battaglie sul mare, i dipinti che le hanno fermate nel tempo: La Triomphante, una corvetta del XIX secolo, la affascina particolarmente.
' In fin dei conti è stato quel nome a sedurmi...avrei desiderato più di tutto imbarcarmi su una nave francese che mi garantisse futuri trionfi. Per quanto potesse essere furibondo il mare, angosciosa la solitudine, irti di pericolo i porti, deludenti i ritorni a Chebourg, nulla di tutto questo avrebbe avuto importanza, dal momento che il trionfo era scritto'.

La vitalità, il trionfo, l'affermazione: una seconda linea di lettura, altrettanto interessante; così come gli autori che accompagnano la protagonista nel suo viaggio fino al porto di Atrani: da Lawrence d'Arabia a Stendhal, da Conrad a Proust; fino a Kavafis, che chiude il cerchio del tempo e dei luoghi.

' Mezzanotte e mezza. Come è passata l'ora.
Mezzanotte e mezza. Come sono passati gli anni'

Il medico di corte di Per Olov Enquisit

Bellissimo e struggente, 'Il medico di corte' (1999) di Per Olov Enquisit, scrittore svedese pubblicato in Italia da Iperborea. Johann Friedrich Struensee, giovane medico tedesco di idee illuministe, viene convinto ad abbandonare il suo impegnativo ed appassionato lavoro per accettare l'incarico di medico di corte del re di Danimarca Cristiano VII, diciottenne sull'orlo della follia. Struensee accetta di compiere quello che ritiene suo dovere, inserirsi cioè in uno spiraglio della storia per cambiare il mondo: dal 1768 al 1772 la Danimarca, per mano del medico, otterrà le leggi più avanzate del mondo, anticipando la rivoluzione francese: seicentotrentadue decreti, tra i quali la libertà di stampa e di culto. La 'rivoluzione danese' mette in moto gli intrighi di una Corte che non può tollerare un simile stravolgimento: la sua relazione con la giovane regina inglese Caroline Mathilde, dalla quale ha una figlia, diventa il punto debole al quale il vecchio potere si aggancia per fermare Struensee.
La realtà ha una fantasia infinita; quando uno scrittore sa raccontare vicende storiche illuminando i documenti del calore che nasce dal leggere l'animo degli attori del dramma ci permette davvero di viaggiare nel tempo. Sono personaggi indimenticabili: Cristiano il folle, Struensee il taciturno, Caroline che crea se stessa attraverso l'amore; ma
anche la prostituta Caterine-Polacchina, la regina madre, il paziente precettore Reverdil e infine Guldberg, l'uomo che nessuno nota e che lavora nell'ombra. Tutti prigionieri del loro ruolo, tutti più o meno sul confine tra finzione e follia, tutti Amleto nel suo castello: il Grande Gioco del potere è difficilissimo ed ignorarlo porta alla morte. Dolorosissimo il destino di tutti loro, come fossero tutti parte di quel fiume di gente, del popolo, che si muove spinto da impulsi incontrollati, fiutando l'aria ma senza saperla interpretare: il popolo, per il quale Struensee lavorava alla sua scrivania, sarà il primo a decretarne la fine; ma la folla, senza capirlo, si farà silenziosa quando la fine arriva; un'intuizione, espressa solo con il silenzio, di qualcosa che doveva accadere ma che fa male, un dolore profondo.
Il potere, la forza liberatoria dell'amore profondo, la responsabilità ed il suo peso, la libertà, la storia ed i suoi movimenti ingovernabili, le donne e la loro difficile emancipazione: c'è tutto, in questo romanzo.  

Il resto di niente di Enzo Striano

'Il resto di niente', pubblicato nel 1986 dopo una difficile vicenda editoriale, è un romanzo storico incentrato sulla figura di Eleonora de Fonseca Pimentel, nobile portoghese cresciuta a Roma e vissuta a Napoli: attraverso la sua biografia viene narrato il periodo in cui, sull'onda della Rivoluzione Francese, alcuni illuministi italiani proclamarono la Repubblica Partenopea, fragilissima e destinata in breve al fallimento.
La scelta del romanzo, preferito ad un testo puramente storiografico, permette a Striano punti di vista plurimi: la voce dei 'lazzari', il popolo napoletano di grado sociale più basso, non avrebbe trovato posto in un lavoro di pura documentazione.
La vita di Eleonora viene ricostruita puntigliosamente, a partire dall'infanzia romana fino al trasferimento a Napoli, dove rimarrà fino alla morte; quella Napoli che lo sguardo di Eleonora così descrive.
' Vi alitavano savia comprensione, indifferenza gentile, meglio ancora supremo senso della vita, in equilibrio tra pietà e disincanto. Tutto (dal grande e nobile, al futile e meschino) acquistava preziosità inestimabile ma, al tempo stesso, non valeva nulla.'
Che tutto si riduca a niente, nada de nada, il resto di niente, lo ricorda, nei mesi di grande caos  della rivoluzione, la domestica Graziella, che ne trae la sua morale di accettazione dello status quo:
' Ognuno nasce co' la parte sua. Nasce prevete e è prevete, nasce zoccola e è zoccola. E po': prievete, zoccole, signure, tutte quante morimmo'.

Il romanzo di Striano nasce da un forte impegno politico e letterario, dalla volontà di ricercare le radici della scomparsa della 'sconfitta' di Napoli e del malessere della contemporaneità: attraverso lo sguardo di Eleonora e dell'amico Sanges, adottando un punto di vista interno alla storia, Striano racconta di quei pochi anni in cui si formò una intellighenzia cittadina attiva che credette di poter rovesciare il regime borbonico senza però riuscire a coinvolgere la spinta anarchica e incontrollabile del popolo che voleva 'liberare'.
Le pagine più coinvolgenti, a mio parere, sono quelle che raccontano le giornate della repubblica partenopea, quando l'utopia deve fare i conti con la realtà e la distanza tra lo slancio teorico e i comportamenti, spesso dettati da 'questioni private', emerge in tutta la sua evidenza. La visione critica di una rivoluzione imposta non intacca però il valore della ricerca di giustizia di alcuni di loro, capaci di coltivare il dubbio e di smascherare le illusioni più pericolose.

'Un giorno, grazie al nostro lavoro, spunteranno fiori, frutti, i bambini mangeranno. Se nessuno s'occupa del giardino il mondo finisce' riflette alla fine Eleonora, rivendicando il proprio lavoro, il proprio impegno nel seminare, far nascere, coltivare idee.

Utilizzando diverse tecniche, dall'accumulazione al flusso di coscienza, e lingue diverse oltre l'italiano (portoghese, francese, napoletano), 'Il resto di niente' ricostruisce con grande precisione un ambiente, un momento storico, una città evidentemente molto amata. La scelta di una donna, come personaggio centrale, arricchisce la storia di un punto di vista diverso, quel 'woman's corner' di cui parlava Virginia Woolf.

Valentino di Natalia Ginzburg

Ho ascoltato Valentino di Natalia Ginzburg dalla voce di Michela Martini, per Ad Alta Voce di Radio Rai 3: le letture offerte dalla radio per celebrare il centenario della nascita della scrittrice mi hanno fatto innamorare di questa voce meravigliosa della nostra letteratura, che conoscevo solo in parte. Valentino, romanzo breve pubblicato da Einaudi nel 1951, ha la stessa scrittura-parlata de Le piccole virtù e di Lessico familiare, la stessa capacità di farci vedere i personaggi nella loro vita quotidiana, la stessa sensibilità tranquilla ma acutissima accompagnata da un affetto palpabile per le persone di cui racconta. L'impressione è quella di una timida ma attentissima osservatrice, capace di cogliere gesti e discorsi e di conservarli come preziosi reperti di quello che è stato e di quello che è.
Caterina, l’io narrante,  ricostruisce in prima persona il suo rapporto con il fratello Valentino, giovane narciso inconcludente di provincia , totalmente preso da se stesso. Squattrinato e privo di volontà, delude i suoi genitori, soprattutto il padre che lo voleva medico; con astuta meschinità si cerca una moglie ricca quanto brutta, che però lo ama: potrà, così, vivere nell’ozio, fingendo di studiare, in realtà godendosi la vita insieme all'amico Kit, cugino della moglie, che come lui è un inconcludente, anche se di animo più generoso e meno malizioso. Caterina seguirà il fratello, perché invitata dalla cognata Maddalena, nella sua casa, condividendone la vita. Il suo desiderio di una vita indipendente, anche povera, anche senza amore, non potrà essere appagato a causa del fratello, noncurante è colpevole della infelicità di chiunque si leghi a lui.
'lui si è preso sempre tutto quello che la gente gli ha dato, senza sognarsi di dare niente, senza tralasciare un sol giorno di carezzarsi i ricci davanti allo specchio e di farsi un sorriso. Lui che certo non ha mancato di farsi quel sorriso allo specchio, neppure il giorno della morte di Kit'

Una storia familiare che riesce a coinvolgere completamente, grazie ad una scrittura mai banale e scontata: una semplicità che non ha niente di ingenuo, ma che è il risultato di un percorso per arrivare a raccontare con voce autentica ciò che semplice non è.

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout

Da alcune settimane in ospedale per un'infezione, Lucy Barton si trova in camera la madre, che non vedeva da anni; a chiamare in aiuto la suocera è stato il marito, troppo impegnato con il lavoro e le due figlie per riuscire a tenere compagnia alla moglie durante la lunga degenza. La donna è arrivata a New York da una piccola cittadina dell'Illinois, Amgash, ed ha preso l'aereo per la prima volta. Inizia così un breve periodo -cinque giorni- di vicinanza: Lucy non vuole altro che ascoltare la voce della madre che racconta le storie degli abitanti del paese lontano, la voce la culla, la calma, la riempie di affetto. Le parole che si scambiano madre e figlia sono allegre, leggere, divertenti; il non detto rimane tale, ma attraverso quella condivisione il passato riemerge e trova le parole per essere narrato, senza rancore, con comprensione ed amore.
' ...ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra  unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola', dice Sarah Payne, che insegna scrittura e che ha in comune con Lucy la provenienza da un passato di povertà in provincia. La storia di Lucy, la sua unica storia, è simile a quella di Sarah: lo sforzo di raccontare qualcosa di vero legato alla povertà e la difficoltà nel farlo.
' e poi mi resi conto che nemmeno lei, nei suoi libri, raccontava esattamente la verità, che si teneva sempre alla larga da qualcosa'. È una cosa che Lucy capisce, perché anche lei si tiene alla larga da qualcosa: 'viene dal nulla', aveva detto di lei la suocera presentandola ad un'amica. Quel nulla, un niente agli occhi della upper class newyorkese, è un luogo denso e affollato, che Lucy, un pezzetto alla volta, lascia emergere: c'è un furgone, una guerra e le sue conseguenze, tanta povertà. Quel nulla è l'identità di Lucy, che deve trovare forma ed integrarsi in quello che è diventato il suo presente: dopo, solo alla fine, potrà dire che questa è la sua storia. 'Ed io mi chiamo Lucy Barton'.

martedì 30 agosto 2016

Purity di Jonathan Franzen

L'architettura di Purity è eccellente: l'intreccio è complesso e avvincente, in bilico tra romanzo sociale, storico, distopia e finezza introspettiva. Dalla Repubblica Federale Tedesca oppressa dalla Stasi al 'paradiso' del Belize come centro di lotta per la 'trasparenza' delle informazioni, le linee narrative si snodano seguendo avanti e indietro nel tempo la storia di Pip, Anabel, Tom e Andreas.
La giovane Purity, soprannominata Pip, è la voce più giovane del romanzo: cresciuta con una madre decisamente strana e che non le ha mai rivelato l'identità del padre, la ragazza accetta un invito misterioso per uno stage in Belize, alle dipendenze di un leader carismatico e ambiguo, impegnato nella diffusione in rete di documenti segreti, in nome della trasparenza e dell'idealismo. Ma Andreas Wolf nasconde una storia tormentata e la sua vicenda si intreccia con quella di Purity;  l'intreccio si basa su questo convergere di tutti i personaggi verso un punto d'incontro, un qualche segreto che è la merce di scambio nella lotta per il potere.
Come nei precedenti romanzi di Franzen, molte sono le pagine angoscianti: i personaggi sono invischiati in relazioni malate e in rapporti di dipendenza,  le discussioni sono spesso gorghi nei quali le parole trascinano verso la follia. Non a caso, il rumore di una pallina da tennis contro il muro  sarà per Pip il suono della serenità: un suono senza significato, ripetitivo e rassicurante come quello della pioggia sui tetti.
dal punto di vista del  romanzo 'sociale' non saprei dire se Franzen sia riuscito nel suo intento: la denuncia dei social network come nuova forma di dittatura colpisce nel segno e mi è piaciuta la contrapposizione tra giornalismo 'alla vecchia maniera' e i fantasmi alla Julian Assange. Ma il centro degli interessi di Franzen mi è sembrato ancora una volta il nucleo delle relazioni affettive e sessuali: i ritratti  di alcuni dei  personaggi sono impietosi, tanto da risultare a tratto disgustosi.
Sulle donne, in particolare, Franzen si accanisce con crudezza, forse perché sono al centro di ogni vicenda, ed è per amore e odio di madri e compagne che si muovono gli uomini del romanzo, in perenne lotta tra fuga e legame. Donne, ad esclusione della giovane Pip e dell'unica non-madre della vicenda, che sono, in generale, piuttosto fuori di testa. Centrale e perfetto il  ritratto di Anabel, donna umorale e 'lunatica':  la vita sessuale di Anabel è letteralmente legata ai cicli della luna e ai cicli mestruali, la sua arte è un'arte di ossessiva e fallimentare esplorazione del proprio corpo, la sua debolezza l'arma che lega a sé, la maternità la sua forza e il suo ricatto. Le altre non sono da meno: sottraggono figli ai padri legittimi, tengono incatenati i figli con ricatti, sensi di colpa e malattie 'disgustose': le metafore della casa come stomaco, tutto acidi e dolori, e della madre-colon, talmente segnata dall'emotività da ammalarsi di colite, così che Franzen può descriverla come produttrice di puzza, feci e sangue, sono piuttosto esplicite. Il femminismo è spesso associato a questi estremi di malattia e non senso, capaci di generare negli uomini altrettanta follia, a meno che non fuggano in tempo. È un ritratto che non ho amato, ovviamente, anche se il punto di vista cambia diverse volte nel romanzo e la tenerezza di Pip verso le debolezze degli adulti riscatta in parte lo sguardo ossessionato di altri personaggi.
È un grande romanzo? Sì, per capacità tecnica, costruzione, capacità di coinvolgere e trasmettere emozioni (ansia, soprattutto, rabbia, barlumi di pietà e molta ironia). Che sia poi un ritratto dell'oggi, degli Stati Uniti oggi, non saprei ma non credo: mi sembra più il ritratto di quello che l'autore odia, o di cui è ossessionato, come poi in parte succede sempre. Non ha quasi niente a che vedere con il mio sguardo sulle cose, ne riconosco la bravura ma no, non suona per me, questa voce: mi vien voglia di scappare lontano lontano.

venerdì 5 agosto 2016

L'altra figlia di Annie Ernaux

Scritto breve, un testo autobiografico che prosegue il lavoro di Annie Ernaux sulla memoria dei precedenti, Gli anni' e 'Il posto'. Se ne 'Gli anni' la memoria privata e personale lasciava spesso spazio alla memoria collettiva, ne 'Il posto' Annie Ernaux si è avvicinata alla sua storia individuale e ha raccontato della sua famiglia e del suo distacco dalla classe sociale proletaria nella quale era cresciuta con la scrittura  'oggettiva' che utilizza; la Ernaux preferisce fotografare un oggetto o un modo di parlare piuttosto che dar spazio ai sentimenti. In 'L'altra figlia'racconta una vicenda davvero sorprendente e inquietante, un silenzio che suoi genitori hanno mantenuto per tutta la vita: lei lo ha saputo in modo indiretto, da bambina, ma poi non ne hanno mai parlato. I genitori avevano avuto una figlia, prima di lei, morta a sei anni di difterite. Non le hanno mai detto niente, credendo sicuramente di fare bene, di non darle un carico di tristezza troppo grande. Hanno tenuto per loro il dolore e hanno chiuso fuori la secondogenita dalla prima triade, escludendola da un elemento fondamentale della loro storia. Ma neanche lei ha indagato, non ha mai chiesto niente e solo a distanza di tanti anni - così scrive - ha deciso di mettersi di fronte a questa assenza. Un lavoro sulla memoria che si avvicina al tema del rimosso senza mai lasciarsi andare troppo: la scrittura della Ernaux è 'fredda', funziona per sottrazione, per immagini precise.
Mi ha ricordato 'Dora Bruder di Modiano perché è allo stesso modo la ricerca di un fantasma del quale si hanno pochissimi indizi. Ma in questo caso il fantasma è un 'doppio' dell'autrice e non ho potuto fare a meno di chiedermi quanto possa essere potente avere alle spalle un tale segreto.
Per cortocircuito, avendo appena letto Mi chiamo Lucy Burton ' di Elizabeth Strout ho pensato anche alla storia di Lucy, e al tempo in cui si chiudono i conti in sospeso con i propri genitori.

Le piccole virtù di Natalia Ginzburg

Le piccole virtù è una raccolta di saggi scritti dalla Ginzburg tra il 1944 e il 1960, pubblicata da Einaudi nel 1962. Scrittura asciutta, a tratti brusca e insieme poetica: c'è un ritmo, in queste pagine, che incanta e avvince, un ritmo sommesso, nascosto, reticente. Tutto è misurato, concreto, dettato dallo sforzo di essere intellettualmente onesta. Bellissime le memorie del confino con il marito Leone ed i figli; perfetto il ritratto di Pavese, lucido e pieno di affetto, privo di retorica e capace di individuare con parole chiare il male di vivere dell'amico; delizioso il ritratto coniugale in 'Lui e io'. La Ginzburg 'moralista' poi, riserva alcune perle negli articoli dedicati alla scrittura, ai rapporti umani, all'educazione dei figli: lo scritto che dà il titolo alla raccolta e che la chiude è ancora attualissimo e dice, sul rapporto con i figli, alcune cose fondamentali e bellissime sul denaro, sulla libertà, sull'autorità. Una lettura preziosa, che consiglio a tutti e che si conclude con una indicazione precisa, sempre vera, su quello che possiamo fare per aiutare i nostri figli a trovare la loro strada.

'Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l'abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dall'ombra e dallo spazio che richiede il germoglio d'una vocazione, il germoglio d'un essere. Questa è forse l'unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca d'una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l'amore alla vita genera amore alla vita'.

(L'ho ascoltato - e insieme letto - dalla voce di Michela  Cescon per Ad alta voce, Radio 3 - il cielo benedica il podcast e la radio tutta)

domenica 19 giugno 2016

Il mare non bagna Napoli

''Il mare non bagna Napoli' è un libro molto particolare, a partire dal genere. È una raccolta di testi che comprende due racconti, due testi più vicini al reportage ed un lungo finto- reportage dedicato agli intellettuali della Napoli del dopoguerra, amici e colleghi della Ortense.
Nel primo racconto la Ortese descrive la povertà del popolo napoletano attraverso la storia di una bambina alla quale la zia paga un paio di occhiali da vista dopo che si scopre che ha una forte miopia. Gli occhiali, che in un primo momento sembrano alla piccola una bellissima novità che le permetterà di vedere tutta la bellezza del mondo, finiscono per diventare, nel finale, uno strumento che le 'apre gli occhi' sull'orrore che la circonda. Il tema della 'visione', spesso improvvisa, spesso simile a un sogno, lega tutti i testi tra di loro: d'altra parte la Ortese viene spesso definita una visionaria, capace di intuizioni profonde.
La più sconvolgente di queste illuminazioni è in realtà un viaggio nel buio degli inferi del III e IV Granile, un immenso casermone borbonico occupato nel dopoguerra da centinaia di famiglie di napoletani senza casa (fu demolito qualche anno dopo). La visita è narrata attraverso un linguaggio allucinato, come un vero e proprio viaggio nell'aldilà, nel buio della ragione, dove l'umano non si distingue più dall'animale, dove la sporcizia, la malattia, la follia ed il dolore hanno vinto completamente sulla razionalità.
Infine, nell'ultima parte del libro, la Ortese descrive i suoi amici, gli scrittori, gli intellettuali e i 'marxisti' con i quali aveva lavorato alla rivista Sud, animati da una voglia di riscatto per la loro città e per il mondo, dopo la fine della guerra. Ogni libro ha una sua storia, legata al tempo e al luogo in cui è stato scritto, a quello che ha significato per l'autore, al tempo che ha richiesto per nascere e a ciò che ha suscitato dopo che è uscito. 'Il mare non bagna Napoli' ha una storia particolare: la Ortese decide di descrivere gli amici come degli sconfitti, oramai assimilati ai mali che volevano combattere; li ritrae a tinte cupissime, quasi dei morti che camminano, dei sonnambuli. Lo rabbia che suscitò fece allontanare la Ortese dalla città, nella quale non tornò mai più, pur continuando a pensarla e a scriverne; tanto che più volte prese il treno da Milano, anche molti anni dopo, ma arrivata in stazione non scese.
Una lettura non facilissima, soprattutto la parte che riguarda il rapporto tra gli intellettuali e la città; mi è stato necessario capire un po' meglio il contesto, con qualche informazione.
Ho guardato un interessante documentario sulla Ortese, personaggio particolare; è davvero strano pensare che una donna che tutti raccontano schiva, anche impaurita, spesso chiusa in casa e lontana da ogni mondanità, abbia avuto la forza per pubblicare un testo che le avrebbe messo tutti contro.  Per chi fosse interessato consiglio almeno di leggere 'Oro a Forcella' e 'La città involontaria', il reportage sulla vita nel III e IV Granile, per capire come poteva essere quel luogo e cogliere il linguaggio cupissimo e onirico della Ortese.

(Aprire gli occhi è una chiave di lettura importante per la Ortese, che nel libro, come dicevo sopra, gira sempre attorno al concetto di visione: La scuola cattolica di Albinati si apre così: 'Fu Arbus ad aprirmi gli occhi.' Tutta un'altra storia, ma proseguo così le mie letture.)

martedì 19 gennaio 2016

La comparsa di Abraham Yehoshua

La comparsa è un romanzo 'leggero', paragonato ad altri lavori di Yehoshua. Ha la qualità del l'acquerello, le trasparenze di sentimenti accennati, le sfumature tenui di alcuni sogni: tratteggia e non sempre mi è bastato. Le tante corde toccate, vengono pizzicate con delicatezza, come se l'autore volesse mantenere un tocco leggero simile a quello che la protagonista predilige suonando l'arpa.
Gora, arpista emigrata in Olanda, rientra a Gerusalemme per due mesi, a vigilare sull'appartamento della madre mentre questa andrà a sperimentare la vita in una struttura per anziani a Tel Aviv. Per non annoiarsi e guadagnare qualcosa nel periodo di pausa forzata, il fratello trova per Gora un lavoro particolare, la comparsa. Con atteggiamento giocoso la donna parteciperà ad una giuria popolare, ad una serata di musica nel deserto, ad una scena in un ospedale in cui interpreta la parte della malata. Nei due mesi trascorsi in solitudine a Gerusalemme, circondata da famiglie di ortodossi al limite del fanatico, Gora vaga, senza direzioni, lasciandosi portare da una scena all'altra e passando, di notte, da un letto all'altro nell'appartamento. Spesso è visitata da due bambini, che si intrufolano in salotto per guardare la tv, a loro proibita dalle rigide regole della famiglia. Uno di questi bambini è malato di una qualche forma di ritardo: un giorno Gora, nuda nella vasca, afferra il piccolo che tenta di entrare dalla finestra del bagno e lo costringe a spogliarsi, per lavarlo. Gora non ha figli, non ne ha voluti e per questo motivo il marito si è separato da lei, anni prima: non per questo il legame si è spezzato e l'uomo si ripresenta a lei. Nonostante si sia risposato ed abbia avuto due figli ancora non accetta che Gora abbia abortito il frutto del loro amore e cerca una ricompensa. La madre di Gora, inaspettatamente, è d'accordo con l'uomo: dagli un figlio, lascia qualcosa di te, lo cresceremo noi. Ma Gora, donna capace di comperare una frusta per gioco, non si lascia catturare e ritorna alla sua musica. Fino ad arrivare in Giappone, quasi una terra del sogno, per suonare La mer di Debussy: e nel gioco tra il mare e la madre, tra le onde musicali e l'abbraccio materno, Gora ritrova una fertilità che credeva perduta.

Il romanzo ha suscitato discussioni in Israele, seguite ad alcune dichiarazioni dell'autore che criticava la scelta di chi non vuole figli (uomo o donna, senza distinzioni). Ma nel romanzo, Yehoshua, da sempre cantore dei legami familiari, in tutte le loro difficoltà e sfaccettature, guarda con simpatia Gora e la sua arpa: la fa muovere leggera e dolce, libera e vagabonda. Che poi il tema sia complesso è vada oltre il romanzo è appunto faccenda che resta fuori: tra le pagine Gora è una Venere (che è il significato del suo nome) dalle braccia robuste: compera fruste e sa dire di no.

sabato 16 gennaio 2016

L'invisibile ovunque di Wu Ming


'Niente uccide un uomo come l'obbligo di rappresentare una nazione'
Jacques Vaché


Non è un romanzo, l'ultimo lavoro dei Wu Ming; si tratta di quattro narrazioni autonome, legate dal progetto di mostrare la disumanità della guerra e di raccontare alcuni dei modi in cui, gli uomini tentarono di sopravvivere, di evitarla, di assimilarsi. Sulla scia del lungo lavoro al quale da tempo gli scrittori del collettivo bolognese si dedicano, una narrazione al servizio della memoria; in particolare la memoria di quello che è stato dimenticato, rimosso, nascosto. È molto pericoloso, per una società come per i singoli individui, lasciare zone d'ombra nel proprio passato, non esplorare ciò che è accaduto mettendo in luce per quanto possibile tutto ciò che è necessario, anche se scomodo - soprattutto se scomodo. L'invisibile ovunque è uscito nell'anno delle celebrazioni per il centenario della Grande Guerra, ma negli ultimi mesi, quando ormai il boom dei tanti libri dedicati aveva saturato il mercato: a giochi fatti, si può dire - immagino per ribadire una presa di distanza dai meccanismo di mercato. Nel loro sito dichiarano: 'L’Invisibile ovunque è il nostro modo di non celebrare il centenario della Grande guerra'.
Le quattro storie sperimentano diversi registri, dal racconto più tradizionale al mockumentary (il finto documentario), ed in essi emerge, prepotente, il tema della follia, della fuga, del tentativo di sottrarsi, rendendo protagonisti coloro che non vorrebbero, a nessun costo, partecipare alla carneficina: in memoria di Ulisse, che si finse pazzo; in memoria di Achille, travestito da donna; in nome del surrealismo e di un certo comunismo, quello che vedeva nella guerra il paradosso di uomini che uccidono altri uomini della stessa parte della barricata, quella degli sfruttati.
Che le guerre siano sempre carneficine insensate parrebbe una evidenza senza bisogno di ulteriori dimostrazioni: ma i Wu Ming avvertono pericoli (l,eterno ritorno del mito della violenza) e fanno la loro parte, celebrando i disertori, i poeti, i pazzi, gli imboscati. Sottrarsi, in nome di un'umanità diversa.

mercoledì 13 gennaio 2016

Gilead di Marilynne Robinson

Un padre anziano e malato scrive una lettera al figlio, perchè la legga quando sarà grande e possano così conoscersi attraverso le parole scritte, poichè non sarà possibile incontrarsi realmente. Joun Ames ha 76 anni ed è il pastore di Gilead, cittadina sperduta nel nulla dell'Iowa, il cui cui nome è lo stesso utilizzato in inglese per Galaad, famosa per il balsamo biblico. È un credente convinto, senza certezze granitiche: ma la bellezza del mondo è uno spettacolo che lo attraversa come una grazia e che illumina le sue riflessioni in ogni singola parola. La lettera è il racconto di una formazione, degli uomini ai quali è stato legato: il nonno, furibondo abolizionista che predicava con la camicia ancora macchiata di sangue e la pistola in mano; il padre, pacifista convinto e contraltare della follia paterna; il fratello, che abbandona Gilead e la fede come mondi mortiferi e assurdi; l' amico di sempre ed il figlioccio, il misterioso Jack, che è così amabile e così impossibile da amare.
Lo sguardo di John ha il leggero distacco di chi vive come fosse già altrove e l'amore profondo di chi sente già nostalgia di quello che dovrà lasciare: l'amatissima giovane moglie, il figlio ancora bambino. Incantato da ogni nuova mattina che gli viene concessa, il pastore gode di ogni luce, di ogni sorso d'acqua: la benedizione per lui è nello scintillio di un viso bagnato, nelle lucciole che accendono la notte, nella risata della moglie. Si racconta, John Ames, parla con il figlio e intanto parla con Dio, ricorda e riflette, sbaglia e si corregge. La scrittura è sincera, di una raffinata semplicità, come se ogni parola fosse scelta con cura per la sua leggerezza - e precisione, se è possibile trovare i termini esatti per raccontare il profondo di un'anima colma di grazia. Non c'è balsamo in Galaad? Eccome; la musicalità della prosa della Robinson è una traccia costante, che culla, accarezza in superficie, tocca con lievità un punto e poi un altro: con dolcezza penetra sotto pelle, ed arriva giù in fondo, dove il nostro buio aspettava.
Arriva lentamente, il dolore per tutto quello che siamo destinati a perdere, per i figli lasciati nel deserto, per quello che potevamo ancora avere e non avremo - ancora una mattina, almeno due o tre. E non c'è paradiso, anche per John Ames, che lo attenda, che possa competere con la straziante bellezza di questo nostro mondo, che gli angeli del cielo canteranno come si canta la caduta di Troia: un mondo di eroi, destinati a perdere tutto.


venerdì 8 gennaio 2016

Chirù di Michela Murgia, 2015


'Lo guardai con attenzione. Era giovanissimo, forse neppure diciottenne, ma aveva nello sguardo qualcosa di slabbrato, come se osservasse il mondo da una prospettiva già offesa. Vorrei poter dire che quella tra noi fu un’immediata affinità elettiva, ma sarebbe una menzogna: io Chirú lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio.'
Chirù è un diciottenne con aspirazioni artistiche, Eleonora una donna di trentotto anni, attrice affermata che vive da sola e fa della propria indipendenza una bandiera da portare con orgoglio. È una donna intelligente, Eleonora, passionale e piena di interessi; ha avuto una lunga e importante storia d'amore con un uomo che possedeva l'attrattiva per lei essenziale, il fondamento di ogni erotismo: poteva insegnarle, poteva farle da maestro. Su questa idea del rapporto fecondo e ambiguo tra maestro ed allievo si basa il romanzo di Michela Murgia. Ha il pregio di porre al centro della vicenda una donna eccezionale, fuori dagli schemi: una donna manipolatrice e perentoria, che sentenzia e gioca ad essere la più forte e che ama trarre linfa vitale da giovanissimi ragazzini in cerca di indirizzi. Non è simpatica e non vuole esserlo; le interessa altro. L'incontro con il giovanissimo Chirù provocherà leggeri smottamenti alla terraferma sulla quale si sentiva ormai approdata e dalle fratture nasceranno nuove possibilità.
Michela Murgia ha scritto un bel libro, utilizzando una lingua precisa, affilata, intelligente. Ha toccato un argomento interessante e non banale, l'erotismo che si mescola all'insegnamento (quanto sia erotico essere allievo di un bravo maestro e viceversa.) Infine, ha inventato un mondo dove è una donna ad essere una maestra, potente e tagliente. Bello anche il finale: che dite, è abbastanza?'Lo guardai con attenzione. Era giovanissimo, forse neppure diciottenne, ma aveva nello sguardo qualcosa di slabbrato, come se osservasse il mondo da una prospettiva già offesa. Vorrei poter dire che quella tra noi fu un’immediata affinità elettiva, ma sarebbe una menzogna: io Chirú lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio.'

Chirù è un diciottenne con aspirazioni artistiche, Eleonora una donna di trentotto anni, attrice affermata che vive da sola e fa della propria indipendenza una bandiera da portare con orgoglio. È una donna intelligente, Eleonora, passionale e piena di interessi; ha avuto una lunga e importante storia d'amore con un uomo che possedeva l'attrattiva per lei essenziale, il fondamento di ogni erotismo: poteva insegnarle, poteva farle da maestro. Su questa idea del rapporto fecondo e ambiguo tra maestro ed allievo si basa il romanzo di Michela Murgia. Ha il pregio di porre al centro della vicenda una donna eccezionale, fuori dagli schemi: una donna manipolatrice e perentoria, che sentenzia e gioca ad essere la più forte e che ama trarre linfa vitale da giovanissimi ragazzini in cerca di indirizzi. Non è simpatica e non vuole esserlo; le interessa altro. L'incontro con il giovanissimo Chirù provocherà leggeri smottamenti alla terraferma sulla quale si sentiva ormai approdata e dalle fratture nasceranno nuove possibilità.

Michela Murgia ha scritto un bel libro, utilizzando una lingua precisa, affilata, intelligente. Ha toccato un argomento interessante e non banale, l'erotismo che si mescola all'insegnamento (quanto sia erotico essere allievo di un bravo maestro e viceversa.) Infine, ha inventato un mondo dove è una donna ad essere una maestra, potente e tagliente. Bello anche il finale: che dite, è abbastanza?
'Lo guardai con attenzione. Era giovanissimo, forse neppure diciottenne, ma aveva nello sguardo qualcosa di slabbrato, come se osservasse il mondo da una prospettiva già offesa. Vorrei poter dire che quella tra noi fu un’immediata affinità elettiva, ma sarebbe una menzogna: io Chirú lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio.'

Chirù è un diciottenne con aspirazioni artistiche, Eleonora una donna di trentotto anni, attrice affermata che vive da sola e fa della propria indipendenza una bandiera da portare con orgoglio. È una donna intelligente, Eleonora, passionale e piena di interessi; ha avuto una lunga e importante storia d'amore con un uomo che possedeva l'attrattiva per lei essenziale, il fondamento di ogni erotismo: poteva insegnarle, poteva farle da maestro. Su questa idea del rapporto fecondo e ambiguo tra maestro ed allievo si basa il romanzo di Michela Murgia. Ha il pregio di porre al centro della vicenda una donna eccezionale, fuori dagli schemi: una donna manipolatrice e perentoria, che sentenzia e gioca ad essere la più forte e che ama trarre linfa vitale da giovanissimi ragazzini in cerca di indirizzi. Non è simpatica e non vuole esserlo; le interessa altro. L'incontro con il giovanissimo Chirù provocherà leggeri smottamenti alla terraferma sulla quale si sentiva ormai approdata e dalle fratture nasceranno nuove possibilità.

Michela Murgia ha scritto un bel libro, utilizzando una lingua precisa, affilata, intelligente. Ha toccato un argomento interessante e non banale, l'erotismo che si mescola all'insegnamento (quanto sia erotico essere allievo di un bravo maestro e viceversa.) Infine, ha inventato un mondo dove è una donna ad essere una maestra, potente e tagliente. Bello anche il finale: che dite, è abbastanza?

Servabo di Luigi Pintor (1991)

Le "memorie di fine secolo" di Luigi Pintor consistono, volutamente, di poche pagine; l'idea di fondo è che le parole siano sempre troppe, così come i libri. Un presupposto non di posa snob, ma profondamente sentito e trasmesso attraverso una sobrietà di racconto che coincide perfettamente con il sentire trasmesso. una intera vita, densa di avvenimenti e di attività ci viene narrata  con raffinata densità. Lo sguardo è lontano, può cogliere l'insieme ed isolare le tracce necessarie. la guerra e la morte del fratello, motori di un destino segnato fino alla fine; l'impegno politico, la scelta di parte, lo sforzo di ricordare cosa significhi stare nella parte di campo degli sconfitti, dei più poveri, dei lavoratori; la vita affettiva e individuale, mai slegata dal paesaggio collettivo. Una vita esemplare, si sarebbe tentati di pensare: ma non sarebbe d'accordo l'autore, che lascia intravedere anche i fallimenti. Ogni pagina c'è una frase da tenere, un pensiero da far proprio: e quel poco che è scritto basta eccome, per capire quel che bisogna capire. Alla fine, tutto si potrebbe riassumere così: "Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un'altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi."

Qui la lettera testamento del fratello Giaime.

"Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza è che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che i morti seppelliscano i morti." 


Riparare i viventi di Maylis de Kerangal

'Il cuore di Simon Limbres. Cosa sia questo cuore umano, dall'istante in cui ha cominciato a battere più forte, alla nascita, quando altri cuori là intorno acceleravano a loro volta salutando l'evento, che cosa sia questo cuore, cosa l'abbia fatto balzare, vomitare, crescere, danzare in un valzer leggero come una piuma, o pesare come un macigno, cosa l'abbia stordito, cosa l'abbia fatto struggere...'
È una corsa che toglie il fiato, il romanzo di Maylis de Kerangal dedicato al cuore di Simon Limbres, giovanissimo surfista francese destinato a una morte precoce, che lascia integro il suo corpo ma ne uccide le attività cerebrali e dunque ne decreta la morte. Un romanzo su cosa sia un trapianto di cuore, poetico e dettagliato, che corre veloce e ci fa ansimare perché i minuti sono contati quando si tratta di 'riparare i viventi': il protocollo è complesso e prevede procedure accurate ma accelerate. Ci vuole cura per ogni dettaglio: parlare ai genitori, avvicinarli all'idea, contattare centri specializzati, confrontare tessuti e dimensioni.
I romanzieri sono necessari, ho pensato - ancora una volta - a chiusura del libro. Illuminano zone oscure, lasciate in penombra anche quando sono in apparenza sotto gli occhi di tutti. In un tempo in cui la scienza lavora sui nostri corpi e ne cambia la percezione, sono preziose le parole che indagano in quella zona, a ricordarci che un cuore, è pur sempre un cuore: principe del corpo, centro del nostro mondo, pompa carica di sangue e di simboli. Manipolare il corpo non è solo questione di tecnica raffinatissima: ci vogliono cantori, ad accompagnare i nostri cuori e a celebrane i passaggi: accelerazioni, contrazioni, distacchi.
Il personaggio che tiene in mano i fili della vicenda, colui che ne cuce i passaggi, non a caso è un infermiere con la passione del canto; prima di affrontare il discorso del trapianto con i genitori di Simon 'decontrae i muscoli, disciplina il respiro, conscio che la punteggiatura è l'anatomia del linguaggio, la struttura del senso, tanto che visualizza la frase d'inizio, la sua linea sonora, e assapora la prima sillaba che pronuncerà, quella che fenderà il silenzio, precisa, rapida come una lama - un taglio più che una screpolatura ...'. Il tema del ritmo, della musicalità, del suono è una delle tracce profonde del romanzo: il battito del cuore, come la punteggiatura, accompagna costante la vita, accelera e rallenta seguendo le onde, come il respiro del mare tanto amato da Simon. Ed è il ritmo che culla, accompagna, trasporta: sarà il canto a ricomporre l'individualità di un corpo smembrato, la litania delle frasi sgranate a rosario a dare equilibrio alla disperazione di una madre. I cardellini, preziosi e ormai introvabili, andrebbero tutelati, suggerisce l'autrice: perché sarà un canto ad accompagnarci quando dovremo seppellire i morti, o riparare i viventi.
Il cardellino di Donna Tartt, il pappagallo di Flaubert, il cuore semplice che se ne innamora, il canarino di Catullo: trame da seguire, se si ha il gusto del surfista letterario, alla ricerca delle onde.

venerdì 1 gennaio 2016

Mucchio d'ossa di Stephen King

Esco dall'immersione in Mucchio d'ossa pensando: finalmente una storia di fantasmi; e anche: bisogna leggere, ascoltare, vedere qualche storia sui fantasmi. La casa infestata di Amatissima di Toni Morrison, Rebecca la prima moglie della Du Maurier (o il film di Hitchcock), Jane Eyre con il fantasma vivente rinchiuso nella torre; le storie di fantasmi di Dickens, di Henry James, di Edith Warthon. Almeno Giro di vite, con quegli amanti terribili e quei bambini indifesi. E naturalmente Stephen King e i suo amici: le gemelline del corridoio possono dare l'idea. Bisogna conoscerle come si conoscono le storie del lupo cattivo, di Barbablù e della strega che rinchiude Hansel e lo fa ingrassare. Perché sono storie vere, perché i fantasmi esistono come esistono i cattivi. Allora bisogna stare all'occhio, in entrambi i casi e saper riconoscere malvagi e spettri, che abbiamo intorno e dentro di noi. Se non crediamo ai fantasmi non capiremo mai che siamo a volte guidati da forze oscure (o luminosissime) e non sapremo combatterli o farci accompagnare. Non capiremo la storia e quanto aleggi tutta intorno a noi, spingendoci e confondendoci. I fantasmi esistono, ce li portiamo in giro e a volte ci tirano verso luoghi desolati. Oppure ci salvano, o chiedono aiuto. Per fortuna qualcuno li porta alla luce e ci ricorda di guardare bene cosa teniamo nascosto laggiù in cantina.



E questo lo consiglio proprio a tutti. Storia di un lutto da elaborare, di una comunità chiusa in se stessa, di segreti da svelare, di una bambina da salvare, di sogni che sono viaggi nel tempo e nel proprio intuito, del mestiere di scrivere, di vecchi che non mollano il potere. E di fantasmi, ma quelli veri, che ti alitano sul collo e ti lasciano messaggi scrivendo con la farina, che sussurrano nella notte e piangono lungo le tubature della casa. Una casa che chiama, con la voce di una cantante nera di cui non sono rimaste registrazioni: non è che un ballo campagnolo, zucchero, non è che un giro giro tondo.
Stephen King fa lavorare i suoi ragazzi laggiù in cantina che vanno a cercare nei luoghi nascosti e portano alla luce i loro tesori, come il poeta tuffatore del porto sepolto di Ungaretti. Si va in fondo, e si ritorna alla luce: poi si disperdono i canti.
Infine: questo è un romanzo sulle ossa pieno di vita; mette voglia di cantare. Sali in giostra, direbbe Lansdale, qui si parte sul serio. Ma non aver paura, zucchero, è solo un giro giro tondo.