lunedì 2 gennaio 2017

I fratelli Karamazov di F. Dostoevskij

Scrivere qualcosa su I fratelli Karamazov è davvero difficile ed anche un po' sfrontato: non sempre è necessario dire la propria, soprattutto quando si hanno alle spalle decine e decine di menti acute, studiosi attenti, appassionati che hanno dedicato la vita proprio a capire e ragionare su quel testo. Ma con molta cautela, qualche minima riflessione prova a farla. Per me, e chissà che non sia interessante anche per qualcun altro.

I fratelli Karamazov sono un testo che vibra, palpita, brucia; in ogni pagina, in ogni riga, si sente l'urgenza, la necessità, il bisogno dell'autore di raccontare, spiegare, mettere in luce. È un grido potentissimo che chiede di essere ascoltato, che ci strattona e ci schiaffeggia per ottenere la nostra attenzione. E non chiede qualche minuto, neppure qualche ora: Dostoevskij ci chiede giorni e giorni, ci vuole disponibili ad entrare nel suo mondo di più di mille pagine, che probabilmente sarebbero state di più, se ne avesse avuto il tempo.Ma mille pagine non sono niente, all'autore tocca anche correre, correre a perdifiato, qualche volta tirar via, tagliare, sintetizzare; è tutta una corsa, la vicenda Karamazov, un movimento continuo, un pieno di azioni e parole e sensazioni.
Ma la storia? Una storia antica, mitica, sempre viva: l'uccisione di un padre da parte del figlio, un parricidio. Anche se i figli sono tre più uno e ciascuno, per la sua parte, partecipa alla elaborazione di quel pensiero, di quell'istinto, di quel desiderio; anche se la mano di uno solo sarà quella che trasformerà in azione il terribile desiderio, condannando tutti a un destino ancora più sofferto di quanto non fosse già.
Uccidere il padre, come uccidere il maestro è necessario per diventare 'uomini tra gli altri uomini', non più figli senza responsabilità: tanto più se il padre è un cattivo padre è quello che ci lega a lui è rancore, odio, disprezzo, desiderio di vendetta. In parte, tutto il romanzo è una elaborazione di questo groviglio, un tentativo di liberarsi da quel vincolo, perdonando, razionalizzando, imitando. Ciascuno dei tre fratelli Karamazov cerca una via per sopravvivere alla ferita insanabile che la perfidia di Fëdor Pávlovič ha provocato: Dmitrij sembra essere degno erede del padre, dissipatore di denaro, gran bevitore e attaccabrighe; Ivan si presenta come un opposto, tutto raziocinio e distacco; il giovane Aleša un'antitesi, la via della bontà, dell'amore e del perdono. Ma contemporaneamente tutti si dibattono, in questa vicenda, intorno allo stesso tormento: la scelta tra il bene e il male, semplicemente. Il bene è Dio, la terra, l'anima russa; il male è il Diavolo, l'ateismo, le tentazioni dell'Europa. Ma la scelta del bene, è scelta consapevole, sofferta, mai scontata: molte di più sono le pagine dedicate a smantellare la possibilità di credere, ad accusare (la storia del Grande Inquisitore è una potentissima rivolta contro la via cristiana, in nome dell'uomo, contro un Cristo che troppo pretende da creature così fragili). Ivan, portavoce della rabbia contro l'idea di un mondo creato da Dio, colui che rifiuta il biglietto se il prezzo da pagare è la sofferenza anche di un solo bambino è la voce glaciale di una rabbia furibonda di fronte al dolore del mondo. E i bambini, da lui evocati, sono tantissimi in questo romanzo-palcoscenico, dove i luoghi sono impalcature da teatro ed il tempo la luce dei riflettori: abbandonati, affamati, malati, partoriti in un gabinetto, paralitici, storpi, epilettici, moribondi. Ed è sulla tomba di un innocente che si chiude la lunga strada dei fratelli Karamazov, con la voce di Aleša che ancora una volta sceglie di fare di trasformare quel dolore in un punto di forza, un monito è un ricordo per mantenere viva la fratellanza, l'amore, la luce.

Un ultimo appunto, sul quarto fratello: nascosto, non riconosciuto, spesso non visto, completa e trascina l'unità della triade dei fratelli legittimi; è lui, nell'ombra, che porta a compimento quello che doveva e poteva rimanere elaborazione, ipotesi, desiderio, decretando la tragica fine di Ivan e Dimitrij. Ancora una volta, prima di tanti, Dostoevskij ci mette in guardia da quello che accade nelle zone non viste di noi, del nostro mondo: è lì, nelle zone d'ombra, che s'annidano i mostri.

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