lunedì 31 luglio 2017

Il Ministero della suprema felicità’ di Arundhati Roy

“Mi piacerebbe scrivere uno di quei racconti sofisticati in cui, anche se non succede niente, ci sono moltissime cose di cui parlare. Un racconto del genere non può nascere in Kashmir. Quello che succede qui non è sofisticato. C’è troppo sangue per la buona letteratura”.


Tilo, una delle protagoniste de ‘Il Ministero della suprema felicità’ scrive per frammenti, prende appunti, ritaglia articoli di giornale, è sempre alle prese con ‘reperti’ da nascondere o conservare come testimonianza della follia che continua a imperversare sul Kashmir, uno dei luoghi più belli e più tormentati del pianeta. Immagino che Arundhati Roy con queste parole abbia voluto mettere in guardia il lettore: l’urgenza di raccontare nasce in lei da una passione politica e umanitaria che rischia di distrarre la scrittrice dall’attenzione alla forma, essenza dell’arte. Il desiderio di poter scrivere un racconto ‘sofisticato’, in cui i fatti siano pochi e possano essere tenuti sotto controllo con attenzione per il ritmo e gli equilibri, deve essere abbandonato di fronte alla necessità di raccontare quello che accade oggi -è quello che è accaduto ieri- in quell’immenso e complesso paese che è l’India. I percorsi narrativi principali sono due: da una parte la storia di Anjum, transessuale che vive in un cimitero e raccoglie intorno a sé una corte di ‘paria’ di ogni tipo; dall’altra quella di Tilo, donna silenziosa intorno alla quale ruotano tre uomini, e i cui destini si incrociano diverse volte, tra Delhi e il Kashmir. Anjum e Tilo finiranno per incontrarsi in quell’oasi di libertà che è diventato il cimitero, dove nonostante la povertà e la precarietà della situazione si respira un’aria meno opprimente che in ogni altro luogo del racconto.
Arundhati Roy, vent'anni dopo il grande successo de ‘Il Dio delle piccole cose’ ha pubblicato il suo secondo romanzo; nel frattempo ha scritto vari testi di saggistica e si è dedicata a diverse battaglie che riguardano l’India, e a partire dall’India tutto il mondo. Il romanzo riprende con passione (con rabbia, con dolore) le tante sofferenze che ha conosciuto il paese in tutti questi anni: dalla strage di Bhopal alla persistente divisione in caste della cultura indiana, dalla questione femminile a quella dei ‘diversi’ di ogni genere. Con una forte preoccupazione, che emerge dal romanzo e dalle interviste, per il degenerare della democrazia indiana in una sorta di ‘fascismo induista’, e le conseguenti derive estremiste delle comunità islamiche. Un mondo dove ci si ammazza quotidianamente e dove le linee di definizione delle identità variano pericolosamente e soffocano gli individui. E tra tutte le rivolte, i massacri, le follie, la linea guida di ogni guerra, da che mondo è mondo: quella” usuale: la guerra dei ricchi contro i poveri’.

La lettura de Il Ministero mi ha spesso riportato alla mente (per contrasto e vicinanza) ZeroK di Don De Lillo. Le immagini angosciose che assalivano il protagonista americano attraverso mega
schermi sono le stesse, solo un po’ più vicine. E il senso di follia che il contrasto tra quelle immagini (catastrofi, devastazioni, massacri) e le capsule per la vita eterna hanno qualcosa a che fare con i grandi magazzini scintillanti che crescono accanto a marciapiedi affollati di malati che attendono cure senza speranza.
(Il paragone fa storcere il naso, ne sono sicura: eppure…)
P.S. La capacità umana di dividersi in gruppi identitari che lottano gli uni contro gli altri è illimitata e il sistema delle caste indiano o dei gruppi islamici che si oppongono all’occupazione induista avrebbero molto da insegnare alla nostra sinistra, se hanno bisogno di idee per ulteriori frammentazioni . (Parentesi sciocchina, per riprendere fiato).

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