domenica 13 settembre 2015

Yellow birds di Kevin Powers

"Mentre dormivamo, la guerra sfregava a terra le sue mille costole in preghiera. Quando arrancavamo, sfiniti, i suoi occhi erano bianchi e spalancati nel buio. Se noi mangiavamo, la guerra digiunava, nutrita dalle sue stesse privazioni. Faceva l'amore e procreava e si propagava col fuoco"

Gli yellow birds del titolo sono quelli di una filastrocca militare americana, scandita dai soldati durante la marce: “un uccellino giallo/ con il becco tutto giallo/ se ne stava posato/ sul mio dav
anzale./ L'ho fatto avvicinare/ con un pezzo di pane/ e poi gli ho sfondato/ la fottuta testa”.
Perché in guerra, e questo è un libro sulla guerra americana in Iraq, quello che conta è sopravvivere e non c'è altro modo per riuscirci se non scavare fino in fondo a se stessi e “cercarsi dentro la vena bastarda”, come insegna il sergente Sterling, che è l'emblema di colui che ce la farà, a riportare a casa la propria vita, pur diventando un po' psicotico, come bisogna fare. Sterling è quello che urla quando è il momento, scuote i ragazzi dagli attimi di vuoto, spara per primo e se li tira dietro tutti, a spaccare quelle fottuta testa, poco importa se sia un canarino, un cane, un bambino.

Ma gli uccellini gialli sono anche quelli del padre del giovanissimo Murph, diciotto anni appena, che racconta di quando suo padre aprì le gabbie e gli animaletti, dopo un breve momento di inebriato svolazzare, tornarono a posarsi nelle uccelliere: perché questo è un libro sul ritorno dalla guerra e sulla difficoltà ad uscire dalla prigione insensata nella quale hai vissuto per qualche tempo.
Bartle sopravvive ma ritorna come un fantasma: rimane a letto per giorni interi, trascina i piedi, non si lava, non vuole vedere nessuno. Se potesse addormentarsi per sempre lo farebbe, ma che non gli chiedano un atto di volontà: se il passato è un collage di frammenti senza senso che invade la tua testa ogni momento diventa difficile prendere decisioni.
Ha sbagliato, Bartle, e comincia a scontare la sua condanna ben prima che lo Stato venga a pretendere il dovuto risarcimento. Ha sbagliato, prima di tutto, perché si è arruolato ed è finito in Iraq e “ non si rimedia al fatto di aver ucciso delle donne, o di aver guardato uccidere delle donne, o di aver ucciso degli uomini e avergli sparato alle spalle, e poi aver sparato ancora, più di quel che serviva per ucciderli ...”; ha sbagliato perché ha promesso alla madre di Murph di tener d'occhio il ragazzo e di portarlo a casa sano e salvo e non si fanno promesse del genere, nessun legame è consentito in quel mondo rovesciato, Murph ha cercato di sfuggire alla disumanità e questo lo ha reso debole, lo ha ucciso; Bartle ha sbagliato ancora, ha scritto una lettera, fingendosi Murph, alla signora LaDonna, postina e madre di Murph, la quale ha capito che qualcosa non tornava e ha cominciato a fare domande sulla morte del figlio.
Kevin Powers è stato davvero in Iraq; si era arruolato, a diciassette anni per avere maggiori possibilità di studio: i suoi voti non erano abbastanza alti per ottenere una borsa di studio. Era uno con la testa tra le nuvole, un poeta che si è ritrovato (colpevolmente) a partecipare ad una guerra, alla quale, anche nel romanzo, nessuno sembra trovare un senso. Ma Kevin Powers non si perde come Murph, né diventa una macchina da guerra come Sterling: assomiglia a Bartle, trova una misura tra le due follie e rimette insieme i pezzi, grazie a un lirismo potentissimo mescolato a una durezza che non chiede sconti a nessuno. E' un vero peccato che siano nate dalla barbarie pagine di una bellezza che a tratti diventa una visione.
“E io vidi infine il suo corpo disfarsi all'imboccatura del golfo, dove le ombre delle palme da datteri  si allungavano come tende scure sulle sue ossa, ora sparpagliate, trascinandolo nel mare, verso una schiera di onde che si infrangono all'infinito mentre lui vi entra”.

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