mercoledì 31 agosto 2016

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout

Da alcune settimane in ospedale per un'infezione, Lucy Barton si trova in camera la madre, che non vedeva da anni; a chiamare in aiuto la suocera è stato il marito, troppo impegnato con il lavoro e le due figlie per riuscire a tenere compagnia alla moglie durante la lunga degenza. La donna è arrivata a New York da una piccola cittadina dell'Illinois, Amgash, ed ha preso l'aereo per la prima volta. Inizia così un breve periodo -cinque giorni- di vicinanza: Lucy non vuole altro che ascoltare la voce della madre che racconta le storie degli abitanti del paese lontano, la voce la culla, la calma, la riempie di affetto. Le parole che si scambiano madre e figlia sono allegre, leggere, divertenti; il non detto rimane tale, ma attraverso quella condivisione il passato riemerge e trova le parole per essere narrato, senza rancore, con comprensione ed amore.
' ...ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra  unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola', dice Sarah Payne, che insegna scrittura e che ha in comune con Lucy la provenienza da un passato di povertà in provincia. La storia di Lucy, la sua unica storia, è simile a quella di Sarah: lo sforzo di raccontare qualcosa di vero legato alla povertà e la difficoltà nel farlo.
' e poi mi resi conto che nemmeno lei, nei suoi libri, raccontava esattamente la verità, che si teneva sempre alla larga da qualcosa'. È una cosa che Lucy capisce, perché anche lei si tiene alla larga da qualcosa: 'viene dal nulla', aveva detto di lei la suocera presentandola ad un'amica. Quel nulla, un niente agli occhi della upper class newyorkese, è un luogo denso e affollato, che Lucy, un pezzetto alla volta, lascia emergere: c'è un furgone, una guerra e le sue conseguenze, tanta povertà. Quel nulla è l'identità di Lucy, che deve trovare forma ed integrarsi in quello che è diventato il suo presente: dopo, solo alla fine, potrà dire che questa è la sua storia. 'Ed io mi chiamo Lucy Barton'.

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