mercoledì 31 agosto 2016

La vita felice di Elena Varvello

' Nell'agosto del 1978, l'estate in cui incontrai Anna Trabuio, mio padre portò nei boschi una ragazza.
Si era fermato col furgone sul ciglio della strada, prima del tramonto, le aveva chiesto dove stesse andando, le aveva detto di salire.
Lei accettò il passaggio perché lo conosceva.
Lo videro viaggiare a fari spenti in direzione del paese, ma poi lasciò la strada, prese un sentiero ripido è sconnesso e la costrinse a scendere, la trascinò con sé.'

Inizia così, La vita felice di Elena Varvello, con un'anticipazione che mette in moto l'attesa, la tensione che ci spinge a voler capire cosa è successo e perché. Il meccanismo è in parte quello di una crime story, ma lo sguardo che indaga e ricorda è quello di Elia, il figlio di quell'Ettore Furenti che quell'estate trascina nei boschi una ragazza, segnando così un taglio netto tra quello che era la vita prima e quello che sarà; e nello stesso tempo, avventurandosi nel buio dei boschi porterà alla luce e lascerà deflagrare il malessere che da tempo lo accompagna.
Con una narrazione pulitissima, fatti di dialoghi, luoghi, molti silenzi e densissime reticenze, il romanzo ci porta nel cuore di una famiglia ferita, nella quale l'amore saldissimo e luminoso della madre di Elia per il marito tenta in ogni modo di arginare, sostenere, accompagnare un uomo nelle sue oscurità, senza riuscire a raddoppiarsi per accompagnare altrettanto il figlio; fa tutto quello che può, ma naturalmente non basta.
È un romanzo su una formazione dolorosa, sull'amore e sulle triangolazioni inevitabili: Anna è per Elia la forma del desiderio, ma anche madre, sorella; allo stesso tempo permette al ragazzo di calarsi nei 'panni' del padre e di avvicinarsi ad un doppio della madre); Elena Vivarello racconta con voce controllata e intensa il dolore di crescere quando 'la famiglia' è una costellazione di luci che affiorano sul buio profondo, una cielo ferito da tempeste che si affacciano su infiniti buchi neri; di come si può crescere senza odiare, nonostante tutto, il proprio passato ed i propri genitori, facendo i conti con le 'assenze' e le colpe, per diventare Telemaco, come direbbe Recalcati.
Diventare grandi vuole dire anche questo: vederli, questi genitori, come persone, con tutte le loro ricchezze e mancanze. Perdonarli, lasciarli andare; proprio per questo, credo, la voce di Elia suona così  controllata e intensa: è intrisa di tutto l'amore e di tutto il dolore di ogni figlio che abbandona i genitori al loro destino, dopo tutto il male e il bene che ci sono stati.

'Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce  le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.'
Questa frase di Alice Munro ha accompagnato la scrittura di Elena Varvello: uscirne vivi, non casualmente, si intitola la raccolta da cui è tratta.
E per uscirne vivi, una direzione è lasciar perdere ciò che pensavamo di meritare, ciò che pensavamo ci fosse dovuto, quello che credevamo fosse nostro diritto, quando ancora eravamo figli.
' È questo che deve tenerti legato alle persone, Elia. Il bene. Il resto è solo quello che crediamo di meritare, e non vale granché, la maggior parte delle volte.'

Quello che crediamo di meritare, un pensiero da lasciar perdere: a questo non pensarci, Elia, vai avanti, avrai una vita felice.

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