"Lei
che cosa avrebbe fatto al mio posto?".
Questo è l'incipit
che Enrico Deaglio ha scelto per raccontare l'incredibile storia di
Giorgio Perlasca, commerciante padovano nato nel 1910 il quale,
nell'inverno del 1944, bloccato a Budapest dalla seconda guerra
mondiale, riuscì a strappare allo sterminio migliaia di ebrei
ungheresi destinati alla deportazione verso i campi di
concentramento, spacciandosi per il console spagnolo. Era stato un
entusiasta fascista, aveva combattuto in Abissinia ed in Spagna come
volontario per Franco: di fronte all'orrore dei "treni della
morte" di Adolf Eichmann decise di rischiare la sua vita e
ingannando tedeschi e ungheresi organizzò "case-rifugio" e
procurò documenti falsi. "Perchè non potevo sopportare la
vista di persone marchiate come animali. Perchè non potevo
sopportare di veder uccidere dei bambini".
Semplicemente
per questo. Banalmente per questo. "Lei che cosa avrebbe fatto
al mio posto?" interroga Giorgio Perlasca: come se la sua azione
sia stata un'ovvia e banale risposta agli eventi di cui si è trovato
testimone. E saremmo tentati di rispondere che anche noi avremmo
fatto la stessa scelta, se semplicemente non sapessimo anche fra gli
italiani, di fronte alle prime leggi razziali decretate da Mussolini,
ci furono solo fugaci "casi di coscienza" bollati dal
regime sotto l'etichetta di "pietismo". Forse per questo
Giorgio Perlasca dopo il ritorno a casa e la fine della guerra si
trovò di fronte un muro di silenzio, di volontà di dimenticare. Era
difficile raccontare l'eroica storia di un'opposizione che non c'era
stata, molto meglio non raccontare affatto. Per mezzo secolo nessuno
si è interessato alla storia di Perlasca, tanto che piano piano egli
stesso cominciò a dubitare, e a dimenticare. "Mi dicevo: ma è
veramente vero quello che mi ricordo? E' vero quello che è successo
agli ebrei di Budapest? E' vero quello che ho fatto in quei mesi?".
In tutti questi anni Perlasca chiudeva gli occhi e ricostruiva una
storia fatta di date, volti, luoghi. Tutto tornava, corrispondeva:
"non mi sbagliavo. Era veramente successo". L'incubo
descritto da Primo Levi in Se
questo è un uomo,
il sogno che tormentava le difficili notti degli ebrei nei campi di
concentramento: di essere tornati finalmente a casa, di raccontare
con sollievo le sofferenze patite alle persone amate e di non essere
ascoltati. Nel sogno gli amici si alzano in silenzio e si allontanano
da quegli scomodi racconti. Un incubo che Giorgio Perlasca, non
vittima bensì salvatore, ha vissuto fino al 1987 quando un gruppo di
donne ebree ungheresi alcune delle quali gli dovevano la vita,
decisero di rendergli giustizia e lo rintracciarono. La dottoressa
Eveline Blitstein Willinger racconta di aver immediatamente
identificato Perlasca come uno dei Giusti. "E' una storia del
Talmud, che mio padre mi raccontava quando ero bambina. In qualsiasi
momento della storia, ci sono sempre Trentasei Giusti al mondo. Sono
nati giusti, non possono ammettere l'ingiustizia. E' per amor loro
che Dio non distrugge il mondo. Nessuno sa chi sono, e meno che meno
lo sanno loro stessi. Ma sanno riconoscere le sofferenze degli altri
e se le prendono sulle spalle...". Così Perlasca è stato
convocato a Budapest, dove gli è stato conferito l'Ordine della
Stella d'oro, con il parlamento seduto in piedi ad applaudirlo, e a
Gerusalemme dove ha piantato un albero nel Parco dei Giusti, nel
quale migliaia di piante ricordano i nomi di tutti coloro che
aiutarono gli ebrei durante il nazismo. Il libro di Enrico Deaglio,
pubblicato da Feltrinelli l'anno scorso, è stato l'occasione perchè
la vicenda di Perlasca venisse conosciuta anche in Italia, dove era
rimasta nell'ombra: oggi l'uscita del testo in edizione economica è
un momento importante per avvicinare altri lettori alla "banalità
del bene".
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