
Lo sguardo di John ha il leggero distacco di chi vive come fosse già altrove e l'amore profondo di chi sente già nostalgia di quello che dovrà lasciare: l'amatissima giovane moglie, il figlio ancora bambino. Incantato da ogni nuova mattina che gli viene concessa, il pastore gode di ogni luce, di ogni sorso d'acqua: la benedizione per lui è nello scintillio di un viso bagnato, nelle lucciole che accendono la notte, nella risata della moglie. Si racconta, John Ames, parla con il figlio e intanto parla con Dio, ricorda e riflette, sbaglia e si corregge. La scrittura è sincera, di una raffinata semplicità, come se ogni parola fosse scelta con cura per la sua leggerezza - e precisione, se è possibile trovare i termini esatti per raccontare il profondo di un'anima colma di grazia. Non c'è balsamo in Galaad? Eccome; la musicalità della prosa della Robinson è una traccia costante, che culla, accarezza in superficie, tocca con lievità un punto e poi un altro: con dolcezza penetra sotto pelle, ed arriva giù in fondo, dove il nostro buio aspettava.
Arriva lentamente, il dolore per tutto quello che siamo destinati a perdere, per i figli lasciati nel deserto, per quello che potevamo ancora avere e non avremo - ancora una mattina, almeno due o tre. E non c'è paradiso, anche per John Ames, che lo attenda, che possa competere con la straziante bellezza di questo nostro mondo, che gli angeli del cielo canteranno come si canta la caduta di Troia: un mondo di eroi, destinati a perdere tutto.
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